martedì 30 ottobre 2012

Apologia felina n.2 - Gatti Belli Grassi

Wikisbiri 


Sbirignigni, che per comodità chiameremo Sbiri, è il gatto di una delle mie secolari amiche, Nicole Genoni.
Inizialmente viene chiamato Piduz, nome che gli viene poi tolto per l'imbarazzo di doverlo comunicare al veterinario. Verrà battezzato allora come Matisse, nome certo più aristocratico e nobilitante. Non ci siamo ancora,  perché nessuno di questi due nomi rende ragione di una cosa: l'istinto di toccarlo appena ce lo si trova davanti, accompagnando i palpeggiamenti della sua ciccia con strani suoni onomatopeici. Perché è questo l'effetto che fa, l'hanno testato clinicamente i laboratori  l'Oréal (test che porterà il felino ai vertici della classifica dei gatti più ricchi del mondo, ma questo all'epoca non lo sa ancora nessuno).
Ecco allora che al suo terzo battesimo, si rende ragione di ciò chiamandolo Sbirignigni.
Sbiri nasce quasi vent'anni fa e in seguito ad un intervento estetico svoltosi al San Raffaele di Milano, comincia ad ingrassare.  Essendo un esemplare particolarmente furbo riesce a farsi fotografare solo dai suoi profili più fotogenici e snellenti, assumendo pose suadenti e sornione che spostano l'attenzione dalla sua pancia (vedi foto sopra).
Per amore del vero, ho paparazzato Sbiri per un pomeriggio intero e questo post è il mio reportage sull'esemplare migliore di gatto-bello-grasso dopo Orazio.

Sbiri è largo come uno schienale, ma potrebbe raggiungere ulteriori estensioni. Come Blob, infatti, ambisce ad occupare lo spazio adattandovisi e assumendo le più svariate forme.


Sbiri ha in realtà uno sguardo vivace e attento. Lo dissimula per cercare di indurvi a pensare male di lui, per poi querelarvi  per diffamazione e calunnia.




Sbiri vi riceve quasi sempre in salotto e vi offre del brandy e un buon sigaro in cambio di compagnia e di un chilo di carne, possibilmente filetto o tagliata. Vanno bene anche carni bianche, purché imburrate, per mantenere costante la percentuale di grassi giornaliera.

A onor del vero è  un simpatico chiacchierone: probabilmente vi racconterà di come, da piccolo, non si sia mai veramente accorto di cadere dal balcone.


Sbiri è un innovatore, indotto dalla sua curiosità a compiere gloriose imprese.
E' l'inventore, tra le altre cose, di una tecnica di caccia al pesce rosso che consiste nel bere tutta l'acqua della boccia, aspettare che il pesce muoia e mangiarlo subito dopo.
Finora non è mai riuscito nel suo intento a causa di una fuga di informazioni che ha sventato il suo piano.




 Sbiri è un vero sportivo, oltre che un filosofo: nessuno è mai riuscito a confutare il suo sillogismo secondo cui "fare movimento significa fare sport, sto muovendo le orecchie e la coda, faccio sport". 

Sbiri è anche eunuco. Le malelingue dicono che l'operazione a cui è stato sottoposto in giovanissima età sia in realtà una precisa scelta di genere. Sbiri non ha mai smentito, nascondendosi dietro al suo sguardo enigmatico ogniqualvolta si sollevasse l'argomento.


Sbiri non ama mostrare le zampe. Da questo comportamento poco trasparente deriva la sua fama di faccendiere in campo felino. Pare che i magistrati abbiano intercettato ingenti capitali smossi per approvvigionare le sue dispense, senza aver ancora capito da dove arrivino questi soldi. D'altra parte il nostro ha un alibi di ferro, essendo ai domiciliari in un appartamento al terzo piano, dal quale non si è mai allontanato (salvo la già citata caduta dal balcone).



Sbiri è il gatto più amato dagli ospiti di casa Genoni. Con la sua gaiezza e la sua estroversione, è impossibile sospettarlo di tutte le maldicenze che girano sul suo conto (come quella che lo vuole sempre pronto ad azzannare la mano che gli si appropinqua per tastarlo).







Recentemente Sbiri ha aperto una società che si occupa di vendita e smercio di cibo biologico per gatti, entrando nel pool di azionisti della nota catena di supermercati Arcaplanet.
Nel 1999 Sbiri ha pubblicato con Mondadori il romanzo semi-autobiografico "Se 100 metri quadri".
Dal 2002, in seguito alla forte presa di coscienza della sua sessualità negata,  fa parte dell'associazione Arcigay ed è uno dei più attenti e attivi sostenitori delle campagne di sensibilizzazione legate alle tematiche GLBT.
Nel 2004, dopo lo scandalo l'Oréal, rilascia un'intervista all'Economist, in cui dichiara la sua estraneità ai fatti. Subito dopo, Cosmopolitan lo nomina Gatto dell'Anno e Oliviero Toscani gli dedica un intero servizio fotografico.
Dal 2005 è direttore editoriale e artistico della rivista "Pussy cat".

La foto potrebbe dare un'idea  delle dimensioni reali di Sbirignigni. A confronto con un piede umano le dimensioni in scala sono di circa 1:15. 





mercoledì 10 ottobre 2012

Cinque generazioni di fenomeni.

Uno dei molteplici scopi per cui un blog come questo esiste, è quello di creare delle tracce di appunti più o meno dettagliati per la mia futura autobiografia, che sarà di qualche migliaio di pagine e verrà fatta leggere a ogni cittadino sin dalla prima alfabetizzazione, come quella di Kim Jong-il.

In realtà l'azione scatenante di questo post è uno degli atti inconsapevolmente geniali di una donna il cui senso estetico è molto vicino a quello di Benny Lava: mia madre.
La mia mamma è nota per essere una donna di polso, che prende decisioni irrevocabili in un batter di ciglia e senza scomporsi minimamente. Con lei il danno è sempre fatto, ancora prima che possa essere concepito.
Come dicevo,  infatti, è stata lei in realtà a dare vita a questo post: con il candore degli ignari,  ha fatto ingrandire una vecchia foto risalente al periodo del mio battesimo a dir poco compromettente. Questa foto, che ha subito provocato un moto di irrefrenabile ilarità in me e mio fratello:



Vi siete ripresi? Bene, ora posso iniziare a narrare.

L'importanza dell'immagine di cui sopra deriva dalla sua potenza riassuntiva: vi sono infatti ritratte cinque generazioni di donne della mia famiglia, cinque tappe fondamentali della storia della mia vita.

Al centro, come potete vedere, ci sono io, che per l'occasione sfoggio una tunica bianca che "manco er Papa" e sbadiglio, messicanamente svaccata tra le braccia della mia genitrice, che mi regge fiera come se fossi un piatto di portata. Su di me non c'è molto da dire, ho la stessa faccia di adesso e le mie cellule stanno covando una serie di atti leggendari che verranno espletati più avanti.

Ma andiamo con ordine, partendo dal ramo principale: a destra, di nero vestita e con l'immancabile borsetta-salvavita, Filomena Marelli detta Nonna Filo, la mia bisnonna. Vi fermo subito: se pensate di aver trovato un'oggettiva e inconfutabile prova delle mie origini mediterranee, vi sbagliate. Filomena è più del nord di tutti voi, è solo che ci piacciono le contraddizioni. Purtroppo non l'ho conosciuta a fondo, ma a lei va il merito di aver sfornato ben quattro figlie, una sorta di "famiglia Alcott" de noantri, le Piccole Donne del nervianese: Maria, Emilia, Loredana e Luigia. Ovviamente io sono sempre stata orgogliosissima di avere per bisnonna una sorta di Ispettore Gadget: la "nonna-filo"! Non mi toglierete mai dalla testa che aveva dei super-poteri. Senz'altro era una profeta, ancora adesso porto sul capo la sua pesante condanna: "sarà il bastone della tua vecchiaia", disse un giorno a mia madre.

Maria Dellavedova (sulla sinistra), la primogenita, è la mia nonna, ma sarebbe più corretto chiamarla Nonna Mariuccia, perché ho scoperto il suo vero nome solo in tarda età: a lei devo un sacco di cose e sono certa di somigliarle parecchio. Come lei, infatti, non ho pazienza e basta veramente un nonnulla per accendere un fuoco di fila di improperi, in cui sono quasi insuperabile (mi batte, per ora, mio fratello). Sono sicurissima che arrivi da lei la filosofia dei "mestieri" di casa come terapia: se gli inglesi dicono "when in doubt, bake a cake", noi diciamo "cuand ta s'è inversa, fa' i miste'"! E via! A lei devo anche e soprattutto un senso di superiorità genetico nei confronti dell'uomo "maschio" e dell'uomo in generale: avreste dovuto sentire gli affettuosissimi epiteti  appioppati al Nonno Mosè, con cui ce l'aveva particolarmente. Infatti tra loro due era in corso una faida che manco i Montecchi e i Capuleti: qui si parla di operai (la famiglia di mia nonna, i Dellavedova, e mia nonna stessa) contro "paisan", i contadini, ovvero i Croci. Per dirne una, mio nonno era sempre "urdinari 'me el boeu" che è un modo carinissimo per definire la sua raffinatezza. In realtà, qualsiasi rappresentante del genere umano veniva di tanto in tanto battezzato e registrato sotto le varie categorie di "matòc", "piugiat", "pujana" e via dicendo. Una filantropa, mia nonna. Riassumendo, a lei devo anche:
- il bilinguismo italiano-dialetto
- la mia abilità estrema nel taglio delle verdure (si partiva alle 17:00 del pomeriggio, quando non alle 16:30, con la preparazione del minestrone)
- la tendenza al pettegolezzo, sviluppata dalla sua emeroteca di riviste scandalistiche (Visto, Chi, Oggi e chi più ne ha più ne metta)
- l'abitudine ormai inestirpabile di trovare almeno un soprannome per ogni persona che conosco.

Ora, se dico che la nonna Filo è il filo rosso che passa attraverso le generazioni e ci porta a mia madre  non prendetemi in giro: la nonna-bis è stata un filo in tutti i sensi, perché ha dato il là a generazioni di sarte (io, devo ammettere, rappresento un tragico salto generazionale). E qui arriviamo a mia madre, l'insuperabile e inconfondibile donna al centro della scena, Rosadele Croci. Su di lei ci sarebbe un libro da scrivere e mi trovo in grande difficoltà nel limitarmi. Nasce nella "curta dei Crus" in un giorno di eclisse, e questo sarebbe sufficiente a convincere tutti gli scettici sull'influenza degli astri sulle persone. E' eclettica, un tornado di stati emozionali che sconvolgerebbe qualsiasi psichiatra: nessuno riesce a parlare quanto lei, con la sua velocità e usando una sintassi contorta come la sua. Diciamo che, nel mezzo di ogni suo monologo, si concede una pausa respiratoria di un quarto di secondo ogni mezz'ora.
Ha il piglio sarcastico della nonna Mariuccia e la grazia e il tono di voce del nonno Mosé, e la loro granitica etica (alla fine mio nonno e mia nonna qualcosa in comune ce l'avevano). Sì, perché "quel che è giusto è giusto" ( e non cito l'infinita serie di espressioni ricorrenti che utilizza in ogni enunciato).
Oltre a essere una mamma hard core, di quelle che ti mettono in pericolo di vita appena si muovono, è anche una sarta ammirevole (con una propensione per i colori lisergici e le fantasie optical  floreali), una lettrice instancabile, un chimico (Di Bella je fa 'na pippa!) e una scassamaroni di primissima categoria. Ancora oggi sospetto che mi abbia sempre taciuto il suo lavoro alla CIA come torturatrice psicologica. Una sua domanda non può mai, MAI, essere lasciata senza risposta. Scordatevelo proprio.
Tra le sue manie figurano anche i centrini di pizzo e l'astrologia: se passate da casa sua, oltre a subire un terzo grado sul vostro albero genealogico, la vedrete rivangare nel cassetto del tavolo della cucina e sfoderare uno dei suoi strumenti di tortura, l'oracolo tibetano! Vi dirà cose su di voi che nemmeno sospettavate, dovreste provare!
E' anche altre tre cose: un database vivente (conosce tutti, sa dove sono tutte le cose della casa, conserva tutte le mie bollette, ecc.), un'infermiera mancata (ha già la diagnosi in tasca dopo il primo sintomo e non sbaglia mai) e una stylist impareggiabile.

Avrete notato uno dei suoi capolavori di stile nella foto, l'outfit di mia sorella, Viviana Patregnani. Adina (perché così chiamo mia sorella) è stata la sua principale modella, e su di lei l'accostamento di colori lisergici ha raggiunto apici indiscutibili di bellezza. Ricordo ancora con le lacrime agli occhi una foto che la ritrae in tutina in acetato blu elettrico, calze di nylon verde mela e ballerine rosse. Questi abbinamenti l'hanno segnata per sempre, come l'ha segnata il praticissimo e spartano taglio di capelli che Rosadele le inflisse sin dalla prima infanzia: una rapatura marziale stile combat-lesbo, che anche io ho subito all'età di tre anni allo spuntare dei primi boccoli minacciosi di femminilità. La rapatura di mia sorella era però anche una figlia dei suoi tempi che gradualmente si trasformò in mullet.
Adina è ormai diventata madre a sua volta, ma mi piace ricordare i tempi in cui era solo la mia sorellona premurosa: a parte chiudermi la testa nella porta durante una lite con mio fratello, devo ammettere che da lei ho tratto molti benefici. Rappresenta il lato razionale e umano della famiglia, in tutto e per tutto: in lei tutti i conflitti si risolvono. Proprio per questo, è stata materia prima su cui forgiare le mie abilità. Su di lei ho ricamato una storia bellissima, che potrebbe diventare un film d'animazione. Ci ho creduto talmente tanto in questa storia che l'ho trasfigurata nel mio personaggio: infatti lei è Ada Ben, una bambina robustella e un po' speciale che vive chiusa in una torre, a dir poco taurina e brusca di modi. A dire la verità il personaggio le calza a pennello, tanto che nella mia famiglia, per indicare dei modi di fare un po' rustici e decisi diciamo "adoso".  Ad esempio è adoso il suo modo di appoggiare il bicchiere sul tavolo quasi sfondandolo; una volta ha perfino messo a repentaglio l'antichissimo talamo nuziale dei miei nonni sedendocisi sopra. Ha una sfilza di nomi, ognuno dei quali è collegabile a qualche cosa che ha colpito la mia infanzia, ad esempio la Tata del Conte Dacula o le "lezioni di sesso con Dolores" di Mai Dire TV. Da tante associazioni di questo tipo è nata Ada Ida Oda Viviana Cesira Dolores Samantha Rosalba Hilda Matilda Bina Palma Ursula Augusta Ben (questo il nome completo).

Non fatemi dire altro, se avete bisogno di racconti succulenti basta chiedere: per ora vi basti questo sunto su cinque generazioni di fenomeni. 







lunedì 1 ottobre 2012

Apologia felina n.1

Ho scoperto di volere un gatto con tutte le mie forze. All'inizio sublimavo il mio istinto materno nei confronti di questi felini ricoprendo di sfottò l'istinto paterno di un mio amico nei confronti della sua gatta, Dharma. Ho addirittura aperto un gruppo su Facebook dedicato a lei, con lo scopo primario di raccogliere donazioni per la sua sterilizzazione, che le avrebbe permesso di uscire libera in giardino, lontana dall'occhio indagatore del padre-padrone. Poi il gruppo è diventato un inno alla liberazione sessuale della suddetta gatta. Infine è rimasto solo un pretesto per condividere cazzutissimi meme sui gatti con persone che ancora oggi non mi vedono di buon occhio.

Con lo scopo di aggiornare il gruppo perorando la causa di Dharma, mi sono data alla ricerca ossessivo-compulsiva di immagini stupide di gatti come questa :


A furia di guardare centinaia di foto di gatti, sempre impareggiabili nelle loro pose ed espressioni rispetto a qualsiasi altro essere vivente, il mio amore atavico per loro continuava a crescere a dismisura. Ho persino cambiato la mia immagine profilo di Facebook (e tutti comprenderanno l'importanza della questione data  la portata di un tale gesto) mettendoci un gattino incoronato da putti di Tokuhiro Kawai.

Il passo successivo non poteva che portare alla luce il mio inconscio attraverso la  principale attività che svolgo: la lettura. Tra tutti i libri impolverati che mi circondano e che non ho ancora letto ne ho scovato uno, di cui conoscevo l'esistenza ma che avevo tenuto volontariamente e freudianamente lontano dalle mie grinfie: Io sono un gatto di Natsume Soseki.

491 pagine di racconto della vita di un gatto raccontata dal gatto stesso. Con un ricco apparato di note e delucidazioni sugli elementi di cultura giapponese che compaiono nel racconto. Ce l'ho fatta

Chi mi conosce sa che sono deprecabilmente pigra, e che spesso, nonostante la mania, il volume di un libro può diventare un elemento discriminante per procrastinarne la lettura. Dunque, se mi sono smazzata il malloppazzo, per dirla con un'allitterazione, vuol dire che ero effettivamente attirata da ciò che un gatto potesse dirmi di sé. Ero pronta per iniziare ad affrontare la realtà: il primo scalino, il contatto con la carta e con le parole, era conquistato. 

Se non che ho scoperto, decine di pagine dopo e con un pizzico di disappunto, che il felino senza nome, nonché io narrante della storia, non era assolutamente interessato al mondo dei gatti, ma a quello degli uomini. Ma ecco la folgorazione:  i nostri pensieri erano frecce di un cupido allo specchio. E' stato amore. Se tu mi vuoi, io ti voglio. 

Vincendo la resistenza iniziale mi sono abbandonata alla minuziosa e implacabile osservazione del genere umano, scoprendo un'affinità incredibile tra me e il felino senza nome: siamo due portinai mascherati da pensatori e due filosofi prepotentemente calati nel quotidiano


La conclusione di questo sproloquio è che voglio un gatto. Se qualcuno di voi ipotetici lettori mi potesse aiutare nell'impresa si faccia avanti!

Rendo grazie pubblicamente:

  • alla mia anarco-socia a delinquere nel situazionismo Vally, senza il cui prezioso aiuto non avrei mai potuto realizzare e mantenere attivo il gruppo Facebook "Aiutiamo la gatta di Cili ad emanciparsi sessualmente";
  • ai giapponesi e al loro amore per i gatti;
  • a Sbirignigni, il gatto di Nicole, che merita un post a parte;
  • al gatto senza nome del libro, che mi ha dato coraggio nel continuare ad essere come sono. Per questo lo cito rendendo grazie. 














sabato 25 agosto 2012

Come ti feiko un fake - vol. 1

Tanto per dar fiato alle trombe e per sbattermene un po' di questi venti surriscaldati che non allietano l'esistenza, inizio un felice esperimento antropologico: la creazione di un fake, passo dopo passo.

Partiamo dal primo profilo, il più ovvio, il più facile e il più abusato: FACEBOOK.
Scegliamo un nome a caso, a patto che sia femminile. Questo, come vedremo, per facilitare l'aggiunta di amici e per fomentare i pruriti inguinali che faranno piovere commenti, like e foto-stalking.
Nome femminile in accoppiata con uno pseudonimo al posto del cognome, che collochi già la nostra persona in un area semantica piuttosto definita: quella della ragazza alternativa e party harder, amante della musica, delle droghe e così via. Insomma una tipa "avanti", una che "ci sta dentro di brutto".
Presumibilmente sarà anche una "tipa" che:

1. se la viaggia un sacco (in tutti i sensi, perchè "il viaggio è nella tua testa");
2. ha un parterre di amici e amiche dal sapore internazionale (la nostra è una globetrotter in piena regola);
3. i suoi amici sono tutti alternativi come lei;
4. è una che sta bene attenta a rimanere "strana" e "complicata" quanto basta per esser sempre alla moda.

Data questa prima connotazione generale del profilo, partiamo con la costruzione della personalità complessa della nostra Marta.

Marta nasce il 19 settembre del 1978: ha quindi abbastanza anni da "saperne un sacco", aver girato il mondo negli anni '90, essersi strafatta di qualsiasi tipo di droga quando ancora non era nella norma in Italia. Insomma, lei è una vera alternativa, cosa credete? Nasconde però l'anno di nascita dalla sua bacheca (una delle regole generali della creazione del fake perfetto è: CREARE FUMO).
Marta è di Milano, perché uno di Pescara il sapore internazionale non ce l'ha poi tanto: scriviamo però "Milano, India", per dare quel tocco di umorismo facebookiano che non guasta mai.
Marta vive tutt'ora a Milano, ma non potrete MAI essere sicuri di quale è la  parte del globo in cui si trova in questo momento.
Ha studiato, perché lei è "una tosta", cioè ha un certo spessore intellettuale: essendosi presumibilmente laureata in filosofia o in lettere o in storia, sapremo che ha fatto l'Università degli Studi di Milano ma non se l'ha finita.
Essendo Marta una persona "aperta mentalmente", è una poliglotta: conosce l'italiano, l'Inglese (Uk English, perché è una purista, avrà sicuramente passato mesi della sua vita squattata in qualche appartamento di Soho), il francese, lo spagnolo (ovviamente) e: TADAAAN! L'OLANDESE. Una lingua che normalmente nessuno si caga  ci sta sempre ed è in grado di fare la differenza sul tuo interessantissimo profilo personale di vecchio lupo di mare. Del resto la nostra Marta intrattiene un rapporto malinconico/tranceipnotico/hipsterico/sentimentale con la città di Amsterdam, come vedremo.
Arriva il punto spinoso del lavoro: presumibilmente Marta non è certo tipa da starsene in ufficio 8 ore al giorno, non ama la routine ed è una CREATIVA. Dunque, perché non mettere un lavoro non lavoro come Blomming.com (http://blomming.com/) dove puoi vendere oggetti di tua creazione utili a dare un quid alla personalità altrui per, diciamo, il tempo di una serata? Sì, a Marta piace il vintage, ama le cose particolari, uniche. Per cui lavora su blomming. Tiè. ( In realtà il lavoro su blomming l'ho rubato a una hipster radical chic milanese).
Per completare il profilo, concludiamo con una bella citazione di Franz Kafka (NB in inglese) e con una da una canzone dei Massive Attack, Karmacoma.
Ah, dimenticavo: la religione quale potrebbe essere se non buddista?

Arriva il punto più delicato e  importante: le foto.
Facebook è fatto essenzialmente per guardarsi le foto degli altri per prenderli per il culo, criticarli e sotto sotto ammirarli e poi imitarli (se sei una ragazza) o per cercare di bombarti le tipe o intraprendere sogni romantici sull'eventuale possibilità che "lei" si innamori di te un giorno (se sei un ragazzo).
Cominciamo con un paio di foto profilo e con una bella cover per il diario di Marta. Useremo sempre immagini che non siano foto di persone reali (Marta dopotutto è una anche introversa): piazziamo una bella foto di Emily the Strange, subito dopo sostituita con una del logo Goa/Trance/Raver di Shpongle (un dj e musicista, se non lo conoscete pazienza, mica tutti hanno avuto la vita cool di Marta). Come cover, una bella immagine di Coraline e la porta magica (Alice contemporanea e un po' gotica), dove la protagonista attraversa un tunnel spazio temporale verso un universo parallelo.

Si pone un ulteriore problema: va bene che ci siamo stati attenti a rispettare tutti i cliché e abbiamo anche dato spazio a qualche contraddizione che facesse spaziare l'outfit di Marta verso più stili di alternativismo. Ma si capisce che Marta è un fake, no? Non ha amici.
Costruiamo allora il profilo falso della sua falsa migliore amica, che sarà la prima a chiederle l'amicizia e a scriverle, con una profusione di cuori, "Finalmente su Fb!!!!!". Nasce SARA GANJALOVE MATTEI: amica bionda della mora Marta, altrettanto alternative e disinibita. Sara apparirà con commenti e tag sulla bacheca di Marta e verrà taggata in qualche sua foto.
Inoltre, per il suo debutto nel mondo reale, cominciamo a fare "Like" su qualsiasi cosa sia una discoteca figa, un cocktail, un centro sociale, una cosa cool da fare o da ascoltare. E tagghiamo Marta in una paio di foto, nella brumosa folla di una serata del Tunnel. MARTA E' SEMPRE STATA TRA VOI, ANCHE SE NON LO SAPETE.

Per ora basta carissimi, vi basti sapere che Marta esiste da 48 ore e ha già quasi 20 amici. Quasi tutti maschi.



Nel vol. 2 scopriremo qualcosa di più su Marta  attraverso le sue foto. Stay tuned.









giovedì 12 luglio 2012

I ricordi mi guardano

Un barattolo di vetro, tondo, con un coperchio di latta, tipo quelli della marmellata o della salsa: svitiamo il tappo e, come per magia, oltre all'odore un po' acidulo  e appiccicaticcio del precedente contenuto, sentiamo un lieve fruscio e ci scostiamo di scatto: dal barattolo escono una miriade di farfalle, di diversa forma e colore. Sono i ricordi, la parte intatta e inafferrabile dell'infanzia, le tappe di un percorso che giunge verso la fine per il più che sessantenne Thomas Tranströmer
Mi sono messa a leggere questa piccola autobiografia per punti, ridotta estremamente all'essenziale, prima di avvicinarmi alla sua poesia. Tranströmer ha scritto poco, non è tipo da sprecar parole. Come nella sua poesia, ha condensato in poche pagine ciò che per lui è la sua esistenza: i suoi ricordi.
La famiglia, il perdersi in una città sconosciuta, gli autobus e i quartieri di Stoccolma, il Museo di Storia Naturale, la guerra, gli amici, la scuola elementare e i suoi duri maestri, il ginnasio, l'amore per i versi classici, l'angoscia dei quindici anni: più o meno è tutto qui, e non è certo poco.
Un'esercizio utile per tutti noi, sfrondare la nostra vita  e la nostra storia delle cose inutili che ci portiamo dietro: teniamo le tessere davvero fondamentali, lavoriamoci su, facciamole rivivere quotidianamente e saremo sempre noi stessi, pur evolvendo. Non mi sento di parlare in modo analitico di questo libro, è come se un alone di pudico rispetto lo circondi (anche adesso, qui, mentre lo sfoglio alla ricerca di qualche punto saliente che valesse la pena di essere raccontato). E' come ascoltare il nonno che si racconta, bisogna tener fede alla tradizione orale: non tutto si può scrivere, non tutto deve essere sciupato da considerazioni che cercano sempre di andare al di là della cosa stessa, che violano il significato cercando di estenderlo e forzarlo a interpretazioni altre.



Due considerazioni finali, sull'importanza che questo libro ha avuto per me. Mentre lo leggevo è nata con alcuni amici una discussione piuttosto articolata sul bene e il male, in particolare sulle manifestazione del Male e sugli esorcismi. Uno degli ultimi capitoli de I ricordi mi guardano è appunto intitolato Esorcismo.  Nell'ultimo capitolo, invece, si parla dell'inizio della sua carriera di poeta e della sua passione per le rime latine: dopo la maturità scrisse due poesie in verso saffico, una delle quali è "Ode a Thoreau". Ora, io avevo in mente da tempo di avvicinarmi al pensiero di Thoreau, leggendo, su consiglio di un amico, Walden ovvero la vita nei boschi. Mi piace dire che non credo alle coincidenze.

sabato 21 aprile 2012

Mexico o Quién sabe? Ninguna cosa es segura.

Del Messico si legge a volte qualche articolo sui giornali, che lo denuncia come Paese violento, in preda alle razzie e alle pazzie dei cartelli della droga. Lotte intestine tra i nuovi comandanti, mafiosi e selvaggi.
Poi, più niente.
Questo è il giornalismo oggi: il fatto, la notizia poi, più niente. Si tende a perdere molto della narrazione, per dare spazio a una sola delle tante prospettive (quella più truculenta, vendibile, attraente, ecc.), eleggendola a verità, ritratto assoluto di un popolo e di un paese.
L'eredità di un giornalismo ormai antico, adesso, sembra più che mai preziosa: la raccolta di elzeviri scritti sulla stampa italiana e messicana raccolti nel "diario" Omeyotl di Carlo Coccioli, è un libro imprescindibile per chi voglia risalire alle origini di Messico.
Ho detto bene, "di" e non "del", perché Messico è più persona che cosa. Messico è umano, nel senso profondo del termine, nel senso duale, di uomo e donna. Preso con la forza degli spagnoli quando era ancora adolescente, efebo e ambiguo, il popolo di Moctezuma II, ha sommessamente detto "Tlaa, tlaa" al conquistatore. "Sì, sì".
Fa parte del messicano, mezzo azteco e mezzo maya, mezzo uomo e mezzo donna, l'arrendevolezza e la sopportazione. Che va tra l'altro di pari passo con il mito della pistola facile e della sbronza perenne e molesta.
Carlo Coccioli fu un intellettuale, scrittore, pittore, giornalista e uomo profondamente religioso; curioso,  colto, possedeva i fondamentali requisiti per diventare una delle colonne portanti della letteratura italiana contemporanea. Così non successe, e non sarà qui che vi dirò perché. Preferirei  piuttosto consigliarvi di scegliere ed acquistare uno dei suoi numerosi libri (editi ora da Piccolo Karma Edizioni e da Marsilio). Prima di lanciarvi sul perché e il percome, sul particolare piccante, sulla curiosità, prendete un suo libro e leggetelo veramente. Non sfogliatelo, entrate nella storia e non abbiate paura del tempo che scorre.
Messico, dicevo, va preso così, per quello che è: ambiguo, incerto, cortese. La vera anima di Messico è questa, ci dice Coccioli. Lui stesso non lo aveva compreso, prima di arrivarci e viverci. Prima di conoscere le numerose persone e visitare i luoghi che ci racconta nei suoi articoli, non sapeva quasi che pesci pigliare, con Messico, canaglia e madre allo stesso tempo.
Questa raccolta, salvata dall'oblio, è un diario di viaggio preziosissimo che ci dice tanto di tutte le facce di Messico: storia, politica, letteratura, arte, paesaggio, origini, persone e cani realmente vissuti, religione e tradizioni. Ma soprattutto, ci svela a poco a poco, vagando, il pensiero e l'anima messicani, ciò che non troverete mai su nessuna guida turistica. I suoi racconti sono quasi parabole, da leggere piano, una alla volta, e su cui riflettere. L'amore religioso per una terra, spiegato ai profani.
Io ci ho trovato la chiave, e forse più d'una, per ricominciare a costruire un modo di pensare lontano dal nostro, "occidentale". Messico è antico, e le sue origini sopravvivono nel messicano indiano, nell'uomo che è tutt'uno con la sua terra (in un bellissimo capitolo Carlo Coccioli spiega l'essere "terrestre" dei messicani, e l'assenza di grandi porti in così tanti chilometri di costa).
Ricomincio da qui allora, dall'accettazione sommessa e gentile, assolutamente messicana del "nessuna cosa è sicura". Chissà come andrà a finire.






domenica 25 marzo 2012

Finisce il giorno e al di là della mia finestra il cielo vira dal rosa al grigio azzurro, sopra le sagome tratteggiate a carboncino delle case. Inesorabile tempo che passi e io che non faccio niente, se non rimanere lì, in contemplazione. Stasera la Rete, domani i giornali, saranno pieni delle tue parole. Io mi limito a farti un cenno senza muovermi, guardando lo stesso cielo che guardavi tu dal Tago. Tra qualche giorno riaprirò un tuo libro o forse no. Avrò nostalgia dei tetti  sventagliati e sparsi sui sette colli, dei tramonti ventosi, della luce: come ogni giorno. Continuerò ad attendere, tra la veglia e il sonno, un'altra insonnia. Un'altra me. A presto.


sabato 17 marzo 2012

__________(da compilare) Senza Niente.

"Questo mese ho compilato 193 form online su siti aziendali alla voce lavora con noi. Ho scritto 193 volte il mio nome e cognome. Per 193 volte ho indicato indirizzo, numero civico, cap, città, provincia di residenza e di domicilio (da non indicare qualora quest'ultima coincidesse con l'indirizzo di residenza: non coincideva). Per 193 volte ho indicato il mio numero di cellulare e ho lasciato in bianco il box relativo al numero di telefono fisso. Sempre 193 sono state le volte in cui ho aggiunto il mio indirizzo email e la data di nascita.
Poi, per 193 volte sono passata alla seconda fase: istruzione e formazione."


Stop: ma che, questo libro parla di me? E' l'impatto con la piccola chicca di Pietro De Viola, Alice Senza Niente. 
Molti di voi sicuramente lo conosceranno già, magari qualcuno di voi è passato per caso dal blog di Pietro, che nell'header replica l'efficacissima immagine di copertina, che ricorda un po' un film di Almodovar e potrebbe essere lo zoom su un dettaglio di un quadro di Hopper. Non è un caso, se cito questi due esempi di arte contemporanea quando parlo di Alice: nato come romanzo on line, ha suscitato talmente tanto scalpore, incoraggiamento e approvazione tra i giovani e meno giovani, che alla fine è stato pubblicato. E meno male, dico io. Dovrebbero farlo leggere nelle scuole (qualcuno l'ha già fatto), distribuirlo nei supermercati ogni 50 euro di spesa, metterlo nelle poste per ingannare le ore di attesa, nelle stazioni insieme ai free press, e via dicendo (non me ne vogliano Pietro e le sue tasche).
Ritorno in me, per chi ancora non sapesse di cosa sto parlando: Alice Senza Niente, come è facile intuire, è la storia di Alice, una ragazza trentenne che vive in un monolocale di città insieme al suo ragazzo, Riccardo (vedo già il 10% di voi riconoscersi e annuire). Alice è disoccupata (il 50% di voi sta annuendo), è alla ricerca disperata e compulsiva di lavoro (il 70%) e farebbe qualsiasi cosa pur di uscire a mangiare una pizza con il suo ragazzo e guardare un film di Hollywood senza  provare rabbia e invidia per i ricchi e spensierati protagonisti (non dico che siamo al 100%, ma...). 
 Alice senza niente parla di noi: di chi si dedica con passione a lavori insulsi come distanziare gli appendini in un negozio di catena in modo che l'unica XS, le due S, le due M, le due L e la solitaria e colpevolizzante XL stiano tutte alla stessa distanza come soldatini sull'attenti. Di chi per arrivare a 1.000 euro al mese (cifra iperbolica alla quale TUTTI noi aspiriamo come alla più grande delle fortune) fa almeno due lavori. Di tutti quelli che si abbuffano agli aperitivi e preparano meticolose "schiscette" trasformando una zucchina in un lauto pasto per la pausa pranzo, preferibile ai 3,50€ per un trancio di pizza. Parla di tutti quelli che per mesi e anni si alzano alla mattina e raggiungono un ufficio con l'aura immacolata del discepolo volonteroso di imparare, anche senza rimborso spese, e che tornano a casa scoprendosi non solo "imparati" ma anche produttori di forza lavoro gratuita.  
Con una voce autentica e straziante ci descrive ciò che siamo e che siamo stati e che forse (tocchiamo ferro) saremo: un ammasso di giovani, sempre anelati ma sempre guardati con un aria di disprezzo. Una popolazione di disperati sull'orlo di una crisi di nervi, di esistenzialisti interinali, sottoposti a stress test peggio di una centrale nucleare giapponese. Collaudati da datori di lavoro magnanimi, che poi ti timbrano (APPROVED)  e ti rispediscono in catena di distribuzione. Insomma, polli da batteria disillusi ma con un potenziale ancora da sfruttare a fondo: la speranza, dopo tanta catastrofe, è che "si compiano, e comincino finalmente, le nostre vite". 






Ultima nota: per la prima volta mi capita (con enorme piacere), di leggere la biografia di un autore che non sia pomposa, piena di titoli e opere magnifiche, che ti fanno sentire un puntino nell'universo. Per la prima volta, mi sento sadicamente felice nel leggere che Pietro De Viola, nato in Sicilia, classe 1980, laureato in Scienze politiche, è stato "insegnante privato, volantinatore, agente immobiliare, operaio generico, cassiere, magazziniere, repartista, venditore telefonico, operatore fiscale" mai per più di tre mesi di fila. Questo libro, cito i 99 Posse, è "un fatto di appartenenza" ed è la prova tangibile e leggibile che esistiamo e siamo disposti a farci carico di tutte le tasse, pur di lavorare. 

domenica 11 marzo 2012

Ragazza complicata cresciuta a pane e smog.

Un libricino breve breve che mi conquistò due giorni fa e che lessi d'un fiato in treno: Purché una luce sia accesa nella notte (et al. edizioni, 2010), della milanese Patrizia Zappa Mulas.
Sono raccolti in questo volume quattro racconti che a Milano sono ambientati e che tanto, dello spirito milanese, ci parlano. Io li ho amati e odiati in un secondo. Lei è attrice, ballerina, scrittrice: una personalità importante, che si scioglie nella la sua scrittura e la impregna fino all'ultima riga. Incombe, protagonista e presenza narrante. Con le parole ci sa fare, le gestisce con grazia e talento nascosto, ma è un esercizio pigro, aristocratico e un poco snob. 
Si parte da San Siro (primo racconto), dove la luce artificiale scandisce il tardo pomeriggio d'inverno: in pochissime pagine si esaurisce la narrazione dello spazio domestico, privato e autobiografico della preadolescenza, periodo ingrato raccontato attraverso l'atmosfera carica di malinconia di certe giornate che si avviano alla fine.
Il secondo racconto, il più corposo, è quello che da sé vale tutto il libro. Piazza Fontana e l'innominata strage, vissuta attraverso il velo di tulle che offusca la mente delle giovani danzatrici della scala. Ossia  in sordina come un rumore lontano, niente più. Ma dentro questo bellissimo racconto c'è un pezzo di vita, c'è la fisicità, c'è il riappropriarsi muscolo dopo muscolo della propria storia. C'è un salto d'età e generazionale in fieri, un cambiamento epocale che rimbomba nella mente di un piccolo soldatino con le punte. Bisogna senza dubbio essere grati a queste perle di narrativa che tendono a nascondersi, e rendere loro omaggio, godersele e non avere paura di applaudire.
Terzo racconto, viaggio di una milanese a Stromboli: la scalata del vulcano, l'incontro con la scomoda natura meridionale, il corpo a corpo che sembrerebbe fra lei e il vulcano,  ma in realtà è uno scontro tutto interiore. Esce fuori, qui, la supponenza; quel guardare dall'alto di chi sente nostalgia dell'asfalto, di chi capisce ma non compatisce (nel senso empatico del termine). Forse è il racconto che più infastidisce, come avere a che fare con una compagna di classe brava e attraente, ma che non si riesce proprio a trovare simpatica. 
Alla fine si ritorna a Milano, in via Soflerino. Il punto di vista è quello maschile, ma è una sorpresa che dura poco, perché aspramente,  alla fine, si scopre che lei, La Protagonista, è tornata. Non potendo recitare la parte dell'uomo, si è data il ruolo marginale e attraente dell'amore di gioventù, la ragazza complicata dal profilo di vetro.
Si ha l'impressione di averla conosciuta, di averla guardata di sottecchi nello spogliatoio della palestra, con un misto d'invidia e ammirazione. Ci si ricorda di lei, della ragazza complicata. In questo è veramente brava, nell'imporsi. Lo fa anche con la lingua, arzigogolando una frase semplice, rendendola artificio ricercato, su cui riflettere. Alterigia e determinazione, riflessione e auto-promozione; un ritratto della Milano bene e da bere schiettissimo, non c'è dubbio. 

sabato 3 marzo 2012

MOST WANTED: Mio padre non ha mai avuto un cane.

"La prima immagine è quella di un cane che guarda.
 Il cane sono io.
 Sto guardando mio padre che è una pietra che piange."

 Tre enunciati che ti entrano dentro come un mantra, che dopo averli letti non puoi far altro che abbandonarti alla fede: questo libro sarà bellissimo. Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia, Davidù, è una perla, anzi una pietra. Una pietra pomice che sta a galla nelle acque torbide della letteratura (e rubo la metafora dal libro). Se tutti i libri fossero così belli, corti e intensi, se tutte le storie colpissero nel profondo come questa.
Non so cosa succederebbe, lascio il "se" aperto. Palermo 1992, le stragi di Stato e di Mafia. Palermo e il padre di Davidù,una cosa sola, la città e isuoi abitanti; pietre che piangono, che iniziano a creparsi. Gente che inizia a morire, davanti ai bambini. E un cane, Nerone, che vede i fili che legano gli uomini a tutte le cose e ci insegna a guardare con i suoi occhi (gli stessi della pietra pomice, i mille che arrivano dall'abisso).

 Sarà la mia debolezza per il concetto canino, sarà che questo blog è un ramo del vecchio e ormai scomparso Los Perros Locos, ma io questo libro l'ho letto d'un fiato e non ho potuto non piangerci insieme. Per questo va dritto dritto nei Most Wanted di questa settimana, solitario e regale come una cane di pietra.

lunedì 27 febbraio 2012

Poesiarium.

León Felipe, Sé todos los cuentos.




Yo no sé muchas cosas, es verdad.
Digo tan sólo lo que he visto.
Y he visto:
que la cuna del hombre la mecen con cuentos...
Que los gritos de angustia del hombre los ahogan con cuentos...
Que el llanto del hombre los entierran con cuentos...
Y que el miedo del hombre...
ha inventado todos los cuentos.
Yo sé muy pocas cosas, es verdad.
Pero me han dormido con todos los cuentos...
Y sé todos los cuentos.

"... dopo esser vissuto in diversi paesi latinoamericani, fissò la sua residenza in Messico". Viveva ancora in Messico al momento della pubblicazione dell'antologia di  José María Castellet,  la cronistoria novecentesca della Spagna attraverso al voce dei poeti. Il volume è il n. 23 della collana Le Comete, Feltrinelli.  Correva l'anno 1962, era dicembre. 


sabato 25 febbraio 2012

Most Wanted.



Il sabato è uno dei giorni che preferisco e che detesto: lo preferisco perché ho tanto tempo da dedicare alla lettura, lo detesto perché è un caso unico nella settimana. Da oggi Totalarium dedicherà i suoi sabati ai consigli per gli acquisti: al più presto scriverò uno statuto per i lavoratori messicani, abbiate fede. Nel frattempo, se avete voglia, eccoli qui, i cinque segnalati di oggi.



Se cercate una storia vera, a metà tra romanzo thriller e reportage giornalistico, che vi faccia conoscere molto più di ciò che sapevate di un angolo di mondo e se siete appassionati di certa letteratura nordica che vira al noir, dovete leggere L'uomo laser. C'era una volta la Svezia, di Gellert Tamas, Iperborea, € 19,50, pp.504.

Se invece volete una storia al femminile, e quindi complicata, piena di sentimenti, intelligente, agganciante; una storia sincera e senza peli sulla lingua, in grado di liberare il vostro lato emotivo, allora vi consiglio Miriam e la geometria, dell'esordiente Luisa Grosso, et al./EDIZIONI, € 15,00, pp.228.

Per gli amanti di Amélie Nothomb (sappiate che non vi capirò mai e poi mai), vi segnalo che è uscito il suo ultimo libro, Uccidere il padre, che potete leggere in un pomeriggio e costa solo 9 €. Di Voland, invece, molto più consigliato Il corridoio di legno, di Giorgio Manacorda, sia per la storia, si perchè voglio simpatizzare per gli italiani.

Tra i miei prossimi acquisti, il caso letterario di Alice senza niente, di cui presto o tardi vi parlerò.









venerdì 24 febbraio 2012

La Totalata del giorno

Freschi freschi dalla Sicilia, eccoli recapitati a destinazione: Pesci di Evelina Santangelo e Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia. Due gioiellini fabbricati con i frutti (o meglio, gli scarti dei frutti) di Madre Natura. Perché se ancora non lo sapete, sappiatelo: :duepunti edizioni ha uno zoo di carta e parole, e sono già al decimo esemplare. Si tratta di una collana, come avrete capito, al 100% ecologica e sostenibile: le parole e i disegni sono di inchiostro ad acqua e la carta è fabbricata con la cacca di elefante. Vuoi mettere tenere in mano un libro che in filigrana ha i fili d'erba dello Sri Lanka? E allora comprateli, costano solo 6,00!
Un'anteprima l'avete qui:


domenica 19 febbraio 2012

Se fossi stata la Pym, avrei inventato l'ebook.

 Barbara Pym è stata paragonata a Jane Austen, anzi definita una "moderna" Jane Austen. Io Jane Austen non l'ho mai letta, lo confesso, perciò a prima vista questo paragone non mi dice niente, non posso sapere se questo sia un giudizio positivo o negativo. Ho letto la Pym, però, almeno Crampton Hodnet, e avendo solo questo come metro di giudizio, mi sento di affermare che allora anche la Austen doveva essere in gamba. Leggo che Barbara venne prima esaltata e poi snobbata, come capita spesso in amore.  Pare che dopo un decennio di stima e simpatia il suo editore, nel 1963, la dichiari obsoleta e impubblicabile, o quantomeno non ripubblicabile.  Sicuramente un tempo era molto più facile compiere un atto del genere senza possibilità per la scrittrice di cavalcare l'onda del successo in una repentina e sfacciata rivincita, pubblicando, che so, un ebook a prezzo stracciato e dimostrando che lei  il suo pubblico già ce l'aveva, senza bisogno di passare per il lungo e noioso iter editoriale. Tiè.
Purtroppo la Pym ha dovuto ingoiare il rospo e accontentarsi della gloria post mortem, quando la sua curatrice letteraria Hazel Holt, fa publicare altri tre suoi romanzi, tra cui Crampton  Hodnet. Io me lo sono gustato nella  nuova veste rossa e raffinata che la casa editrice Astoria ha confezionato per lui.
Se vi descrivessi brevemente la trama è probabile che alcuni di voi storcerebbero il naso e passerebbero oltre. Ma il mio intento è quello di mantenervi sintonizzati sui miei sproloqui, e dato che non sarebbe abbastanza dire che questo libro dipinge in maniera ironica, acuta e spietata (ma sempre molto inglese) la vita di North Oxford negli anni trenta, fatta di salotti, biblioteche, amori e pregiudizi, vi dico un'altra cosa:  Jessie Morrow. La signorina Morrow, per la precisione; la dama di compagnia della signora Doggett. Pardon: la signorina Doggett. Sì perché per me è normale considerare una signora una carampana, anche se non sposata. Una signorina, per l'appunto. Dopo questa fatica terminologica, torniamo a Jessie Morrow, una che agli occhi della mondana chioccia oxfordiana è da considerare con un misto di pena e tolleranza. Insomma, l'assistente personale ante litteram, l'individuo da tappezzeria adatto da tenere accanto per i compiti ingrati e per darsi una certa aria di importanza. Ma la signorina Morrow prende il tutto con stile e consapevolezza: ironizza perfino sulla sua scarsa fantasia nel vestire, figuriamoci se può trattenersi dall'ironizzare sulla fauna vittoriana che le sta attorno. Quindi, high five per la signorina, che si lancia in una serie di mosse mai appropriate e ci conduce ad appassionarci a questa storia fatta di verità così comuni che ci sentiamo un po' in colpa a riconoscerci così banali. Perché, tolta la veste vittoriana, Crampton Hodnet potrebbe essere tranquillamente una serie televisiva; dopo le prime puntate, diventa irresistibile. E ve lo dice una che le serie tv non le guarda.


mercoledì 15 febbraio 2012

Letture maniacali di storie maniacali su maniaci.

"Wolfgang si lanciava in progetti sempre nuovi a cui si dedicava anima e corpo. Gli capitò di leggere un libro semisconosciuto sulla dieta a base di acido lattico del tedesco Johannes Kuhl e diventò un fanatico portavoce dei latticini come mezzo per prevenire  il cancro. Aveva il libro sempre con sé e fece stampare degli opuscoli che distribuiva a chiunque incontrasse. Con lui non si poteva parlare d'altro."

Pagina 169. L'uomo laser di Gellert Tamas, Iperborea.

Mi sono innamorata della mania quando ero molto piccola, e niente potrà trattenermi dal divorare pezzo per pezzo questo libro, che ho aperto alla pagina 169 camminando in un androne metropolitano di Porta Venezia. Il formato del libro e il marchio lo rendono più appetibile (anche se tutti voi avete pensato alla scomodità dei formati Iperborea, vi posso assicurare che ci si affeziona, alla scomodità). Che per un anno intero una persona possa accanirsi contro i cittadini stranieri della propria città tormentandoli con un laser, e che per questo venga chiamato "uomo laser" non vi sembrerà più così strano ma che Stieg Larsson volesse scrivere prima lui questa storia e non ci sia riuscito, magari potrà interessarvi. L'aggancio più forte, in ogni caso, è la voglia di scandagliare l'animo umano come un detective tormentato, facendo puzzle di foto e post-it sulla bacheca e scribacchiando su un taccuino, una sigaretta dopo l'altra. Girando per le strade, sfidando il gelo e la ritrosia dei vicini di casa. Tamas l'ha fatto per noi, per cui mi metto in poltrona e comincio dall'antipasto.

Leggetelo, lo so che siete dei maniaci.

lunedì 13 febbraio 2012

Berlino, gli anni del collegio.

Sarà perché l'ho letto in questi giorni di maltempo del tutto eccezionali, che non mi hanno reso difficile immaginare i corridoi scavati nella neve come punizione. Sarà perché nella vicenda affiorano in superficie gli anni di piombo, come detriti portati a riva dalle onde. "Il corridoio di legno" è  l'iniziazione crepuscolare alla narrativa di Giorgio Manacorda.  Ecco cosa mi è piaciuto:

- l'Holtzgang, il luogo. Il corridoio di legno dove i bambini si trasformano in bestie feroci, in spietati caporali, in guerrieri primitivi, in idealisti, in uomini;
- il gruppo, che si trasforma in branco. Nato dalla cattività in una semi-prigione dove la condivisione viene imposta come un castigo. La consapevolezza dell'espiazione comune non fa altro che rendere questi precoci angeli caduti  ancora più identici nella solitudine;
- la tragicità dei personaggi, le loro passioni vissute al limite e la figura romantica del cattivo, Silvestro, il compagno traditore, l'innamorato pazzo, il tiranno solo;
- il linguaggio opaco e denso, le riflessioni così inscindibili dai fatti che non ti permettono di mollare la presa sulla narrazione. Devi leggere non tanto per capire come la storia andrà a finire, perché sai già da subito che non ci sarà un finale. Leggi per quell'attacamento primordiale al dolore e quel gusto del barocco che si nascondono dietro alla storia italiana. 
- l'insalubrità dell'aria. Il racconto epistolare di Andrea è un sifilitico brancolare negli avvenimenti, è il tremolio di un miraggio, la visione dettata dalle febbri della memoria, dell'alcol, dell'immaginazione. Ci si sente stanchi, come a dover ascoltare la verità di un pazzo senza poter fare affidamento su nient'altro. 

Leggetelo chiusi in casa.


Il corridoio di legno, Giorgio Manacorda, Voland (2012).