mercoledì 19 ottobre 2011

Gente Indipendente, I - Elogio amaro dell'indipendenza

"Questi non erano uomini d'animo servile, nè si consideravano parte della massa, vivevano delle loro fatiche, l'indipendenza era il loro capitale, erano gli uomini dell'iniziativa privata, e citavano persino le saghe e le ballate antiche, se si facevano un goccio di acquavite" (Halldór Laxness, Gente indipendente, pag. 30)






Fine Ottocento, l'Islanda si trova ancora sotto la dominazione della corona danese.


Gente indipendente è un libro che si fatica a leggere da pendolare, su un treno stipato di corpi e voci, ed è un libro che è difficile leggere tenendo le cuffie e la musica alta per non sentire le voci intorno a te. E' un libro che ti rende un po' misantropo, ma non capisci bene se l'odio lo provi nel confronto del genere umano come gregge o nel singolo uomo che tenta cocciutamente di tirarsi fuori dall'ovile e diventare pastore, stando in piedi sulle zampe posteriori. La tua coscienza si risveglia, aprendo le palpebre pesanti come le mattine d'inverno nell'isola del ghiaccio e del fuoco, l'Islanda. Ora si è fatto un gran palare di Islanda, un po' perchè è stata il paese ospite alla Fiera di Francoforte, un  po' per la rivoluzione silenziosa e popolare messa in atto dai suoi abitanti. Ma bisogna essere sinceri, sono veramente in pochi quelli che conoscono la letteratura di quest'isola, e io fino a qualche settimana fa non ero tra questi. Il mio risveglio è cominciato da Halldór Laxness, l'unico premio Nobel islandese; non perchè fosse un Nobel, ma perchè avendo dovuto scriverne una breve biografia, ho cominciato ad intuire che razza di genio fosse. Gente indipendente è considerato il suo grande capolavoro, e probabilmente è il suo libro più tradotto. Si tratta di un testo strettamente legato all'Islanda, a quelle terre e a quel popolo impossibili, a quella gente rude che si gratta via il ghiaccio di dosso con il coltello. Una storia che appartiene a un pugno di terra inospitale in mezzo all'oceanoo, concepita però prevalentemente in Russia, quando Laxness si trovava lì in uno dei suoi numerosi viaggi, quando stava cominicando ad assaggiare l'amaro della propria bile, per l'ennesima volta. Non poteva che nascerne un libro pungente e corrosivo come questo, che si può leggere solo  lentamente, soffermandosi su ogni paragrafo con il cuore in gola. 
Il mondo è pieno di gente che lotta per la propria indipendenza, che si ribella al sistema capitalista, che ci ha reso tutti schiavi. Cambiano le modalità ma tutti, dal contadino al pendolare, lottano quotidianamente contro una vita venduta a un sistema senza senso, lottano per il proprio riscatto. Ok, non proprio tutti, ma una buona fetta sì, e voglio continuare a crederlo. 
Bjartur di Sumarhus rappresenta il singolo indipendente. Rappresenta la ricerca di un ideale, la disperata messa in atto di un progetto di riscatto dal sistema e dal padrone, folle almeno quanto il sistema stesso. Folle perchè nasce dal profondo del cuore e della mente dell'essere umano che osi chiamarsi tale. L'uomo che si pensa e si definisce integro, che lotta contro la sottomissione, che con una perseveranza maniacale porta il suo giogo per anni (18, per Bjartur) e poi, costi quello che costi, fa il passo più lungo della gamba, si rende indipendente.  Ora, l'uomo pensante e agente si trova solo contro tutti: solo in una terra desolata, di fumi e umori, solo con le sue pecore, il suo podere, la sua donna, che viene dopo il podere e dopo le bestie. La sua compagna, accessorio della sua condizione. Come un Adamo nel paradiso terrestre o un Robinson Crusoe sull'isol deserta, l'uomo indipendente nomina le cose che gli appartengono, da' molta importanza al potere simbolico e connotativo della parola, perchè è la lingua a renderci uomini e non bestie: allora Bjartur (letteralmente "luminoso") prende possesso di un vecchio podere infestato dagli spiriti maligni del passato e, da vero illuminista, spazza via le superstizioni nominando la sua casa Sumarhus, "la dimora d'estate". Luce, luce sulle tenebre del passato e sulla sottomissione, che passa inevitabilmente dalle credenze popolari e religiose: l'uomo indipendente si nutre di razionalità in un modo che è tanto cocciuto quanto un sistema di leggi. E non importa quanto scuro e freddo sia ciò che lo circonda, avrà sempre un nome che lo riporterà alla luce, come la figlia, la piccola Asta Solliljia, "amata girasole". 
L'uomo indipendente e illuminato dalla sua stessa superiorità intellettuale, che lo rende diverso dal servo della gleba, ubbidisce solo a sè stesso e si fa carico delle proprie decisioni come un tempo sopportava il giogo padronale. Adesso, però, subisce anche il peso delle conseguenze, e non è esente dalla sofferenza. Anzi, paga una tassa superiore: la responsabilità totale delle proprie azioni. E' uscito dal cerchio di protezione-in-cambio-di-sottomissione, e scopre sulla sua pelle la fierezza, l'incscienza e la stupidità dell'indipendenza. Ogni giorno sottrae spazio ai suoi agi, rinuncia alla comodità e tiene sotto stretto controllo le sue risorse: "Un uomo libero può vivere di pesce bollito. E' meglio l'indipendenza che la carne" (p. 60). 

martedì 4 ottobre 2011

Il limbo di Hella.





Il 28 settembre 2011, cioè mercoledì scorso, in una casa di Amsterdam, ci ha lasciato una delle più grandi e poco considerate scrittrici contemporanee: la novantatreenne Hella Haasse.  La Signora delle lettere olandesi, elegante di aspetto e sottile di pensiero. La sua dignitosa umanità traspare nei suoi romanzi, come dal suo sguardo intelligente e vitale; ci lascia in eredità una ricca raccolta di romanzi, tra cui vanno ricordati Oeroeg (1948), il suo primo romanzo storico (aveva undici anni quando l'ha scritto), Il lago degli spiriti (Lindau, 1992), I signori del tè e Il profumo di mandorle amare (Rizzoli), nonchè l'autobiografico Tiro ai cigni (1997, Iperborea). 
Ora basta con i toni tristi da necrologio: se vogliamo rendere omaggio a questa Dama, dobbiamo farlo ricordando con affetto e vivacità la sua vita spesa tra le Indie Olandesi e Amsterdam, studiando drammaturgia, sulla scia di un'eccentrica famiglia. I pieni e i vuoti della sua esistenza hanno dato vita a storie vere e commoventi, di raro spessore umano: le hanno fatto cambiare nome (all'anagrafe è Helene Serafia), l'hanno resa sensibile ai simboli e alla mitologia, alle dimensioni molteplici e mutevoli della realtà. Può sembrare strano, visto che è conosciuta prevalentemente come autrice di romanzi storici: ma Hella S. non ha mai smesso di cercare, di indagare, di rovistare tra i ricordi, trasformandoli un po' in finzione, che è quello che ogni racconta-storie che si rispetti sa fare. I suoi libri sono fatti di una libertà di pensiero ammirevole, proprio quella che "si lascia esprimere solo attraverso immagini, metafore" e che per lei rappresenta "l'essenza dello scrivere": proprio come "l'inafferabilità di un sapere che non è concettualizzato". Rimangono lì, nella sua zona liminare, tra Oriente e Occidente, tra amore e disdetta, tra comprensibile e non, tra presenze e assenze. L'ultimo gioiellino, Genius loci, sembra essere la summa di tutto il suo percorso, dell' incessante interrogare l'esistenza e i suoi trascorsi, senza mai arrivare a una conclusione. Come potremmo mettere un punto? Hella, dall'alto del suo asteroide (il 10250, dedicatole dai suoi connazionali), continua a sorridere enigmatica, invitandoci a proseguire la sua ricerca, invitandoci ad essere lucidi, ma non troppo, a non sottovalutare ciò che la realtà custodisce.

domenica 2 ottobre 2011

Ospite in soffitta, di Gilberto Severini




Come la prendereste se qualcuno vi ospitasse in casa propria, sistemandovi a dormire per una settimana nella sua polverosa soffitta? E' successo a Daniele, ragazzo diciannovenne di provincia, che un giorno si presenta a casa di Tiziano, maturo conoscente e compagno di chiacchiere da bar. Negli anni Sessanta, per essere precisi, quando il bar, quello senza vodka e ombrellini per i cocktails, era un'istituzione. 

Da lunedì a sabato, la storia dei due, che si ritrovano compagni di gioco e allo stesso tempo avversari; una strana coppia, un ragazzo scappato di casa e un rispettabile signore, comincia a muoversi secondo le regole stabilite, un do ut des sottile e resistente come il filo di un equilibrista. Equilibrio è la parola più adatta per descrivere il loro scambio, perché alla fine di questa settimana non ci saranno né vincitori né vinti: alla base di tutto ci sarà un consenso non troppo tacito, un'accettazione delle condizioni imposte, salvo poi saperle rimodellare a piacimento, sovvertendo il finale e il risultato. 
Che il gioco non è innocente l'abbiamo immaginato tutti, tanto più che si sta parlando dell'Italia pudica e pettegola del "pre": prima della ventata di rivoluzione dei costumi, prima dell'aria fresca, quando a fare certe cose si sta chiusi in soffitta. E si esce solo per chiacchierare un po', rimanendo nella penombra, spegnendo le luci più forti, esercitando lo sguardo a un piacere delicato e fatto di sottintesi. Una zona d'ombra che è quella dove vive l'ironia, dove prende forma un dialogo che si basa sull'economia del linguaggio e sull'incompletezza di informazione; il limbo di incertezza psicologica dove può nascere un cortocircuito, e quando la tensione si allenta chi ha imposto le regole può trovarsi "giocato" a sua volta, denudato, con i sentimenti portati alla luce dalle mani abili di un giovane prestigiatore.

Ospite in soffitta, Gilberto Severini
Edizioni PeQuod
pagine: poche