domenica 11 marzo 2012

Ragazza complicata cresciuta a pane e smog.

Un libricino breve breve che mi conquistò due giorni fa e che lessi d'un fiato in treno: Purché una luce sia accesa nella notte (et al. edizioni, 2010), della milanese Patrizia Zappa Mulas.
Sono raccolti in questo volume quattro racconti che a Milano sono ambientati e che tanto, dello spirito milanese, ci parlano. Io li ho amati e odiati in un secondo. Lei è attrice, ballerina, scrittrice: una personalità importante, che si scioglie nella la sua scrittura e la impregna fino all'ultima riga. Incombe, protagonista e presenza narrante. Con le parole ci sa fare, le gestisce con grazia e talento nascosto, ma è un esercizio pigro, aristocratico e un poco snob. 
Si parte da San Siro (primo racconto), dove la luce artificiale scandisce il tardo pomeriggio d'inverno: in pochissime pagine si esaurisce la narrazione dello spazio domestico, privato e autobiografico della preadolescenza, periodo ingrato raccontato attraverso l'atmosfera carica di malinconia di certe giornate che si avviano alla fine.
Il secondo racconto, il più corposo, è quello che da sé vale tutto il libro. Piazza Fontana e l'innominata strage, vissuta attraverso il velo di tulle che offusca la mente delle giovani danzatrici della scala. Ossia  in sordina come un rumore lontano, niente più. Ma dentro questo bellissimo racconto c'è un pezzo di vita, c'è la fisicità, c'è il riappropriarsi muscolo dopo muscolo della propria storia. C'è un salto d'età e generazionale in fieri, un cambiamento epocale che rimbomba nella mente di un piccolo soldatino con le punte. Bisogna senza dubbio essere grati a queste perle di narrativa che tendono a nascondersi, e rendere loro omaggio, godersele e non avere paura di applaudire.
Terzo racconto, viaggio di una milanese a Stromboli: la scalata del vulcano, l'incontro con la scomoda natura meridionale, il corpo a corpo che sembrerebbe fra lei e il vulcano,  ma in realtà è uno scontro tutto interiore. Esce fuori, qui, la supponenza; quel guardare dall'alto di chi sente nostalgia dell'asfalto, di chi capisce ma non compatisce (nel senso empatico del termine). Forse è il racconto che più infastidisce, come avere a che fare con una compagna di classe brava e attraente, ma che non si riesce proprio a trovare simpatica. 
Alla fine si ritorna a Milano, in via Soflerino. Il punto di vista è quello maschile, ma è una sorpresa che dura poco, perché aspramente,  alla fine, si scopre che lei, La Protagonista, è tornata. Non potendo recitare la parte dell'uomo, si è data il ruolo marginale e attraente dell'amore di gioventù, la ragazza complicata dal profilo di vetro.
Si ha l'impressione di averla conosciuta, di averla guardata di sottecchi nello spogliatoio della palestra, con un misto d'invidia e ammirazione. Ci si ricorda di lei, della ragazza complicata. In questo è veramente brava, nell'imporsi. Lo fa anche con la lingua, arzigogolando una frase semplice, rendendola artificio ricercato, su cui riflettere. Alterigia e determinazione, riflessione e auto-promozione; un ritratto della Milano bene e da bere schiettissimo, non c'è dubbio. 

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