lunedì 5 dicembre 2011

"Miki sono io".

Siamo all'Arci Bellezza di Milano, un baluardo della controcultura meneghina, un po' abbandonato in questo buio lunedì lavorativo. José Ovejero e il suo amico e traduttore Bruno Arpaia, seduti davanti al palco, provano a raccontare questo libro; difficile. Un anno nero per Miki. Andiamo per gradi.
José Ovejero è la voce senza patria di un esiliato per scelta: uno che non appartiene a nessun luogo, uno che osserva e descrive, spolpando la trama fino all'osso. Un anatomopatologo della letteratura, della realtà. La storia di Miki è didascalica rispetto a questo lato dello scrittore madrileno, ora residente a Bruxelles. Per lui, scrivere bene non corrisponde ad avere uno stile preciso: significa prendere distanza dai personaggi, trovare uno stile adatto e raccontare la loro storia.
Chi è Miki: Miki è un mostro. Miki è una persona insensibile, indifferente, vuota. Non ha pietà; leggere la sua storia è come scavare una fetta d'anguria con un cucchiaino. Ci si deve arrendere ai fatti, ci si deve entrare di testa per scoprire di non essersi fatti male, come se avessimo un cuscino legato intorno agli occhi. Per scoprire che nemmeno noi proviamo dolore per la morte di Boris, il figlio di Miki, né per quella di Verena, sua moglie.
Due morti strane, vicine nel tempo e circondate da un alone di mistero. Ma se state cercando un noir, un giallo o un thriller, questo non è il libro giusto. Un anno nero per Miki è semplicemente la storia di un uomo, o almeno di una parte della sua vita, vissuta con il suo paraocchi; è la tragica vicenda umana di un quarantenne, che non si sente più giovane ma che scappa dalla vecchiaia, troppo intelligente per farsi ingannare dagli specchietti del successo, troppo stupido per riuscire ad amare davvero qualcuno. Miki è uno che scappa: dal dolore, dai rapporti umani, dalla vita vera. Si rinchiude nel suo guscio fatto di internet, alcool, GHB, porno. Prova ad amare giusto per avere la conferma che è la solitudine quello che gli resta, perché ciò che lui cerca è una freschezza adolescenziale che gli è stata tolta per sempre. Miki ha solo desideri, nessun ricordo. E' l'homo sapiens che guarda al gradino successivo: solo che per quelli della sua specie non funziona così. La civilizzazione, con tutti i suoi oggetti asettici, le armi, le droghe sintetiche, i preservativi, quella è già arrivata. Non rimane nulla da scoprire, nessun traguardo possibile. Miki si è trasformato nel guscio in cui si è nascosto, quando ha smesso di ricordare.
Quello che si prova leggendo questo libro: non c'è niente da capire, niente da scoprire. Nessuna traccia da seguire per smascherare assassini, nessun racconto di vite passate, nemmeno troppa psicologia dei personaggi. Solo un pilota automatico, con le sue crisi di panico. Che sia un romanzo camp? Un'operazione di pop art, dove in quello che vorrebbe essere il climax (che poi si affloscia come certe torte cotte male) le immagini dell'attentato alle Torri Gemelle si alterna fino a sovrapporsi a quella di una fellatio.
Ovejero non ha paura a confessare: "Miki sono io. Miki è come ognuno di noi, quando cerchiamo di sfuggire a certe regioni oscure della nostra esistenza. La letteratura, in questo caso, è un po' la voce della nostra ombra".

martedì 29 novembre 2011

A cosa servono gli amori infelici, di Gilberto Severini.



A cosa servono gli amori infelici. Il titolo d'un manuale d'istruzioni. Sono qui in un letto d'ospedale, non ho doveri, non ho urgenze, devo solo tenermi impegnato nella mia condizione di degenza, dove il tempo assume delle curve proprie, simili alle traiettorie disegnate dal pulviscolo alla luce del sole. 
In questo limbo asettico da corsia prendo appunti, senza uno scopo. Strato dopo strato, faccio l'analisi logica alla realtà su questi fogli di carta rimediati, che sembrano quelli di brutta delle scuole. Trovo il modo di rispondere, anche a chi non mi ha mai chiesto niente. Anche a me stesso. Anche a Gesù, che non so se esiste e non me ne è mai importato più di tanto. L'amore. L'amore io l'ho sempre subìto, sono stato il suo giocattolo per anni. L'oggetto del desiderio, mi muovevo su una scena forzata, preparata per me senza che lo sospettassi. 
L'amore mi ha voluto, mi ha sedotto travestendosi di nobili sentimenti e poi si è tolto la maschera. Crudelmente, sorprendendomi spalle al muro. Trovando in me la fanciullesca purezza nutrita dai ricordi di un'amicizia dal sentore di fieno, l'amore colto in fallo ha cominciato a spiarmi a lungo, nutrendosi della mia intimità. Mi ha trasformato in un attore, in un catalizzatore di passioni destinate ad inaridirsi, a partorire aborti di felicità e poi a spegnersi ingrigendo come le ceneri. Io ero oggetto della passione inconfessabile, carburante del senso di colpa, e mi trasformavo in un peso. In quel grumo che prende vita nel petto, senza saperne uscire, nonostante le lacrime, i sillogismi, le metafore e le poesie. Io ero la vergogna fattasi carne; io, così cerebrale e indifeso. Io ero diventato per gli altri, gli spettatori passionali e attivi, l'inadeguatezza e la frustrazione, la stessa che ho provato quando la storia mi è sfilata davanti, palpabile e sudata, con i colori della gioventù in rivolta. Quando io, troppo vecchio e di nuovo troppo cerebrale, non me la sono sentita. Nel mio blazer blu, mi sono confermato uomo d'aria, uomo del tutto e del niente, il fantasma dei discorsi retorici. 
Ora scrivo. Ora ho tempo. Ora sto per morire, o forse no. In ogni caso, sto per varcare la soglia, con la mia carne che a poco è servita e con il mio bagaglio di pensieri da distribuire. Scrivo queste ricette con la punta delle dita, con la delicatezza professionale del medico che annuncia la complicazione al paziente. Carta e penna i miei ferri del mestiere, posso finalmente comunicare alle mie vittime, ai miei pazienti, la diagnosi del loro dolore, la risposta alle loro accuse: "Ho trascurato davvero la parte migliore della mia vita?".

mercoledì 19 ottobre 2011

Gente Indipendente, I - Elogio amaro dell'indipendenza

"Questi non erano uomini d'animo servile, nè si consideravano parte della massa, vivevano delle loro fatiche, l'indipendenza era il loro capitale, erano gli uomini dell'iniziativa privata, e citavano persino le saghe e le ballate antiche, se si facevano un goccio di acquavite" (Halldór Laxness, Gente indipendente, pag. 30)






Fine Ottocento, l'Islanda si trova ancora sotto la dominazione della corona danese.


Gente indipendente è un libro che si fatica a leggere da pendolare, su un treno stipato di corpi e voci, ed è un libro che è difficile leggere tenendo le cuffie e la musica alta per non sentire le voci intorno a te. E' un libro che ti rende un po' misantropo, ma non capisci bene se l'odio lo provi nel confronto del genere umano come gregge o nel singolo uomo che tenta cocciutamente di tirarsi fuori dall'ovile e diventare pastore, stando in piedi sulle zampe posteriori. La tua coscienza si risveglia, aprendo le palpebre pesanti come le mattine d'inverno nell'isola del ghiaccio e del fuoco, l'Islanda. Ora si è fatto un gran palare di Islanda, un po' perchè è stata il paese ospite alla Fiera di Francoforte, un  po' per la rivoluzione silenziosa e popolare messa in atto dai suoi abitanti. Ma bisogna essere sinceri, sono veramente in pochi quelli che conoscono la letteratura di quest'isola, e io fino a qualche settimana fa non ero tra questi. Il mio risveglio è cominciato da Halldór Laxness, l'unico premio Nobel islandese; non perchè fosse un Nobel, ma perchè avendo dovuto scriverne una breve biografia, ho cominciato ad intuire che razza di genio fosse. Gente indipendente è considerato il suo grande capolavoro, e probabilmente è il suo libro più tradotto. Si tratta di un testo strettamente legato all'Islanda, a quelle terre e a quel popolo impossibili, a quella gente rude che si gratta via il ghiaccio di dosso con il coltello. Una storia che appartiene a un pugno di terra inospitale in mezzo all'oceanoo, concepita però prevalentemente in Russia, quando Laxness si trovava lì in uno dei suoi numerosi viaggi, quando stava cominicando ad assaggiare l'amaro della propria bile, per l'ennesima volta. Non poteva che nascerne un libro pungente e corrosivo come questo, che si può leggere solo  lentamente, soffermandosi su ogni paragrafo con il cuore in gola. 
Il mondo è pieno di gente che lotta per la propria indipendenza, che si ribella al sistema capitalista, che ci ha reso tutti schiavi. Cambiano le modalità ma tutti, dal contadino al pendolare, lottano quotidianamente contro una vita venduta a un sistema senza senso, lottano per il proprio riscatto. Ok, non proprio tutti, ma una buona fetta sì, e voglio continuare a crederlo. 
Bjartur di Sumarhus rappresenta il singolo indipendente. Rappresenta la ricerca di un ideale, la disperata messa in atto di un progetto di riscatto dal sistema e dal padrone, folle almeno quanto il sistema stesso. Folle perchè nasce dal profondo del cuore e della mente dell'essere umano che osi chiamarsi tale. L'uomo che si pensa e si definisce integro, che lotta contro la sottomissione, che con una perseveranza maniacale porta il suo giogo per anni (18, per Bjartur) e poi, costi quello che costi, fa il passo più lungo della gamba, si rende indipendente.  Ora, l'uomo pensante e agente si trova solo contro tutti: solo in una terra desolata, di fumi e umori, solo con le sue pecore, il suo podere, la sua donna, che viene dopo il podere e dopo le bestie. La sua compagna, accessorio della sua condizione. Come un Adamo nel paradiso terrestre o un Robinson Crusoe sull'isol deserta, l'uomo indipendente nomina le cose che gli appartengono, da' molta importanza al potere simbolico e connotativo della parola, perchè è la lingua a renderci uomini e non bestie: allora Bjartur (letteralmente "luminoso") prende possesso di un vecchio podere infestato dagli spiriti maligni del passato e, da vero illuminista, spazza via le superstizioni nominando la sua casa Sumarhus, "la dimora d'estate". Luce, luce sulle tenebre del passato e sulla sottomissione, che passa inevitabilmente dalle credenze popolari e religiose: l'uomo indipendente si nutre di razionalità in un modo che è tanto cocciuto quanto un sistema di leggi. E non importa quanto scuro e freddo sia ciò che lo circonda, avrà sempre un nome che lo riporterà alla luce, come la figlia, la piccola Asta Solliljia, "amata girasole". 
L'uomo indipendente e illuminato dalla sua stessa superiorità intellettuale, che lo rende diverso dal servo della gleba, ubbidisce solo a sè stesso e si fa carico delle proprie decisioni come un tempo sopportava il giogo padronale. Adesso, però, subisce anche il peso delle conseguenze, e non è esente dalla sofferenza. Anzi, paga una tassa superiore: la responsabilità totale delle proprie azioni. E' uscito dal cerchio di protezione-in-cambio-di-sottomissione, e scopre sulla sua pelle la fierezza, l'incscienza e la stupidità dell'indipendenza. Ogni giorno sottrae spazio ai suoi agi, rinuncia alla comodità e tiene sotto stretto controllo le sue risorse: "Un uomo libero può vivere di pesce bollito. E' meglio l'indipendenza che la carne" (p. 60). 

martedì 4 ottobre 2011

Il limbo di Hella.





Il 28 settembre 2011, cioè mercoledì scorso, in una casa di Amsterdam, ci ha lasciato una delle più grandi e poco considerate scrittrici contemporanee: la novantatreenne Hella Haasse.  La Signora delle lettere olandesi, elegante di aspetto e sottile di pensiero. La sua dignitosa umanità traspare nei suoi romanzi, come dal suo sguardo intelligente e vitale; ci lascia in eredità una ricca raccolta di romanzi, tra cui vanno ricordati Oeroeg (1948), il suo primo romanzo storico (aveva undici anni quando l'ha scritto), Il lago degli spiriti (Lindau, 1992), I signori del tè e Il profumo di mandorle amare (Rizzoli), nonchè l'autobiografico Tiro ai cigni (1997, Iperborea). 
Ora basta con i toni tristi da necrologio: se vogliamo rendere omaggio a questa Dama, dobbiamo farlo ricordando con affetto e vivacità la sua vita spesa tra le Indie Olandesi e Amsterdam, studiando drammaturgia, sulla scia di un'eccentrica famiglia. I pieni e i vuoti della sua esistenza hanno dato vita a storie vere e commoventi, di raro spessore umano: le hanno fatto cambiare nome (all'anagrafe è Helene Serafia), l'hanno resa sensibile ai simboli e alla mitologia, alle dimensioni molteplici e mutevoli della realtà. Può sembrare strano, visto che è conosciuta prevalentemente come autrice di romanzi storici: ma Hella S. non ha mai smesso di cercare, di indagare, di rovistare tra i ricordi, trasformandoli un po' in finzione, che è quello che ogni racconta-storie che si rispetti sa fare. I suoi libri sono fatti di una libertà di pensiero ammirevole, proprio quella che "si lascia esprimere solo attraverso immagini, metafore" e che per lei rappresenta "l'essenza dello scrivere": proprio come "l'inafferabilità di un sapere che non è concettualizzato". Rimangono lì, nella sua zona liminare, tra Oriente e Occidente, tra amore e disdetta, tra comprensibile e non, tra presenze e assenze. L'ultimo gioiellino, Genius loci, sembra essere la summa di tutto il suo percorso, dell' incessante interrogare l'esistenza e i suoi trascorsi, senza mai arrivare a una conclusione. Come potremmo mettere un punto? Hella, dall'alto del suo asteroide (il 10250, dedicatole dai suoi connazionali), continua a sorridere enigmatica, invitandoci a proseguire la sua ricerca, invitandoci ad essere lucidi, ma non troppo, a non sottovalutare ciò che la realtà custodisce.

domenica 2 ottobre 2011

Ospite in soffitta, di Gilberto Severini




Come la prendereste se qualcuno vi ospitasse in casa propria, sistemandovi a dormire per una settimana nella sua polverosa soffitta? E' successo a Daniele, ragazzo diciannovenne di provincia, che un giorno si presenta a casa di Tiziano, maturo conoscente e compagno di chiacchiere da bar. Negli anni Sessanta, per essere precisi, quando il bar, quello senza vodka e ombrellini per i cocktails, era un'istituzione. 

Da lunedì a sabato, la storia dei due, che si ritrovano compagni di gioco e allo stesso tempo avversari; una strana coppia, un ragazzo scappato di casa e un rispettabile signore, comincia a muoversi secondo le regole stabilite, un do ut des sottile e resistente come il filo di un equilibrista. Equilibrio è la parola più adatta per descrivere il loro scambio, perché alla fine di questa settimana non ci saranno né vincitori né vinti: alla base di tutto ci sarà un consenso non troppo tacito, un'accettazione delle condizioni imposte, salvo poi saperle rimodellare a piacimento, sovvertendo il finale e il risultato. 
Che il gioco non è innocente l'abbiamo immaginato tutti, tanto più che si sta parlando dell'Italia pudica e pettegola del "pre": prima della ventata di rivoluzione dei costumi, prima dell'aria fresca, quando a fare certe cose si sta chiusi in soffitta. E si esce solo per chiacchierare un po', rimanendo nella penombra, spegnendo le luci più forti, esercitando lo sguardo a un piacere delicato e fatto di sottintesi. Una zona d'ombra che è quella dove vive l'ironia, dove prende forma un dialogo che si basa sull'economia del linguaggio e sull'incompletezza di informazione; il limbo di incertezza psicologica dove può nascere un cortocircuito, e quando la tensione si allenta chi ha imposto le regole può trovarsi "giocato" a sua volta, denudato, con i sentimenti portati alla luce dalle mani abili di un giovane prestigiatore.

Ospite in soffitta, Gilberto Severini
Edizioni PeQuod
pagine: poche

martedì 13 settembre 2011

Julian Assange, dall’etica hacker a WikiLeaks, BeccoGiallo

Julian Assange, dall’etica hacker a WikiLeaks, BeccoGiallo

Com' è essere squatters a Silverado.

The Silverado Squatters, 1892. 
Robert Louis Stevenson
Edizione che volete.

Bisogna aspettare all'incirca ottanta pagine (quasi la fine del libro) per trovare la materia prima della penna di Stevenson: gli individui. Poca avventura, quindi, in questo esercizietto di stile, quasi un taccuino di appunti, che ci racconta un viaggio circoscritto e dilatato nell'impervia California del post-colonialismo.
L'eterno reduce dei propri malori Stevenson, a Silverado, nel cuore roccioso della West Coast, c'è stato davvero: cammina cammina, naviga naviga e ancora cammina cammina, è andato fin lì per sposare la sua Fanny, dolce americana  coniugata -con un losco trafficante dedito alle donne- e con figli.  Una traversata atlantica all'insegna dell'amore, dove Robert Louis comincia a prendere confidenza con la materia grezza del suo lavoro: scrive e riscrive i suoi appunti di viaggio, proseguendo all'aria aperta il suo instancabile lavoro di cesellatura del proprio stile, la sua ossessione. "Schermo tra la propria esistenza e la scrittura", lo definisce: quella cosa, insomma, che ti permette di avere qualcuno che ti legga sul serio. Nel frattempo, però, inizia una collezione di bozzetti e ritratti che andranno ad alimentare tutta la sua opera, colorita dai personaggi più indimenticabili della letteratura. Un burocrate della caratteristica, un archivista di casi umani; così potremmo definirlo, mentre lo immaginiamo arrabattarsi con occhio clinico, avanti e indietro,  sui ponti malfermi della "Devonia", il piroscafo di emigranti su cui si era imbarcato.
Giunge così, il nostro eroe a tutti gli effetti, a Nuova York, dove prende la strada per la Cali, che già era un po' la city of sex di Tupac, un bel pentolone di prototipi che più o meno un secolo dopo invaderanno la terra globalizzata. Già, perchè il nostro, è anche un gran precursore: quanti di voi, amanti del vocabolo di moda, non ha passato almeno una giornata a crogiolarsi nei riverberi cool della parola "squatter"? Sì, quelli fighi, squattrinati, malandati, quel povero che fa tendenza, oppure quelli emarginati, brutti, parassiti della società, ultima ruota del carro e chi più ne ha più ne metta. Se volete delucidazioni sull'area semantica, ne potete leggere in questo libro. Io torno a Stevenson, il narratore del disagiato, che un po' emarginato lo era lui stesso, ma aveva anche la stoffa dell'eccentrico. Ebbene, S. arriva in California dove sposa la sua amata, ma la luna di miele nell'umida San Francisco non s'ha da fare; le complicazioni, per i suoi polmoni, potrebbero essere letali. E così ricomincia il tour de force, e i due risalgono le pendici del Mount Saint Helena, la loro personale montagna sacra, fino ad arrivare in questo posto dimenticato da Dio e schifato pure dai minatori.  E che fanno lì? Non vanno alle terme, no. Non ci sono operatori turistici ad accoglierli e nemmeno un amico che lasci loro le chiavi del suo appartamento, che lui se ne torna in città. I due, da bravi avventurieri e clandestini (nasce così la loro storia, non dimentichiamolo), si accampano. Spostano mucchi di polvere, riparano vetri rotti, accendono un fuoco. E si mettono lì, ad ascoltare la natura e a tenerla d'occhio accarezzandola di tanto in tanto, come si fa con i cani belli ma un po' troppo grossi e lunatici. Robert Louis Stevenson era uno squatter, un accampato, un povero "di razza bianca purissima", "insofferente al lavoro"; si è mescolato con la categoria che descrive, al punto da farne un'ammissione di colpa. C'è da far vergognare tanta letteratura da tavolo che non ne avete idea; e la grandezza dello "zingaro scozzese" sta nell'aver scovato, vissuto e raccontato allo stesso tempo un fenomeno antropologico, un paesaggio e un'avventura. Tutto questo in sole 150 pagine, si diceva.

sabato 20 agosto 2011

L'isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson

"L'avventurosa ricerca di un tesoro nascosto in un'isola deserta, tra mille insidie e pericoli, tra pirati e furfanti, in un caleidoscopico accavallarsi di colpi di scena. Protagonista è Jim Hawkins, un ragazzo nel quale tutti i giovani lettori si identificheranno immediatamente." Così è scritto sulla quarta di copertina di una vecchia edizione Mondadori (1984) de L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson: e di avventura, nel suo primo capolavoro, ce n'è davvero tanta. Stiamo parlando, se non del padre, di uno dei padrini dell'avventura; lo Stevenson cresciuto attanagliato dalle febbri e cullato dalle storie mirabolanti e forse un po' angosciose di "Cummy", la sua infermiera. Dobbiamo dunque ringraziare le sue disavventure, se oggi possiamo leggere questo fantastico libro, che ci catapulta direttamente all'interno di uno scenario su cui tutti noi, da bambini, abbiamo sognato: il mare e i galeoni, l'isola deserta e il tesoro seppellito in un territorio ostile e pericoloso, almeno quanto i pirati stessi. Ma, al di là dei soliti luoghi comuni, la storia è un po' più complicata: i personaggi di Stevenson (e su questo il "vecchio" non ci delude mai), nascondono le doppiezze su cui poi si costruirà tutta la storia di Jekyll e Hyde; ed è qui che si nasconde la grandezza del nostro scozzese. L'averci regalato il piacere di assaporare le sue storie partendo dalle sue consistenti e sugose canaglie.
Guardate solo il piccolo Jim Hawkins, il narratore: parte rivelandoci il suo lato più infantile e pauroso, di giovane garzone nella locanda paterna, già onesto lavoratore in tenera età, soggiogato dai canti e dalle bestemmie di Billy Bones, il temibile pirata che occupa una stanza dell'"Ammiraglio Benbow" facendo soffrire la sua presenza come potrebbe farlo una zecca. A partire da quei mesi di sopportazione  e tribolazioni (il padre di Jim è malato, e morirà di lì a poco), una serie di individui sospetti e un po' terrificanti cominciano a frequentare la locanda, in cerca di Bones. E il piccolo e innocente Jim, da dietro le porte, scopre  dell'esistenza di qualcosa di molto prezioso, nel baule di Bones, qualcosa che tutti bramano, e per cui il vecchio pirata ci lascerà le penne. Jim cresce in fretta e furia, nel giro di una notte: si impadronirà del contenuto di quel baule, che oltre ai soldi nasconde qualcosa di ben più sostanzioso: una mappa, disegnata da Flint in persona (il pirata che aleggia su tutte le pagine del libro, ritornando di tanto in tanto, quasi un tòpos del terrore). E' grazie al piccolo e coraggioso Jim che tale mappa arriverà tra le mani delle autorità del paese, che fino a qui sembravano personificare la correttezza e la giustizia. Ma la voglia di ricchezza e il denaro, si sa, porta tutti su una cattiva strada, e presto i dottori e cavalieri, anche stuzzicati dall'idea di esotico che si porta dietro l'avventura per mare, mettono in piedi un equipaggio, arruolando gli stessi ambigui uomini di mare che prima parevano disprezzare. 
Così entra in gioco il vecchio pirata Long John Silver, che da solo meriterebbe un libro (che difatti è stato scritto, guarda caso da un uomo di mare - Bjorn Larsson , La vera storia del pirata Long John Silver: ma questa è un'altra storia). Long John, che sembrava aver messo la testa a posto, ha una taverna nella zona del porto: ma coglie al volo la proposta di diventare il cuoco di bordo sull'Hispaniola: ha gli occhi che brillano al pensiero dei soldi, giacché in lui il lupesco istinto del pirata non è mai morto. Infatti, lancerà il seme della rivolta e del tradimento, che tra i vecchi lupi come lui attecchisce subito: Silver architetta un piano per impadronirsi del tesoro e sbarazzarsi della parte più "borghese" dell'equipaggio: il dottor Livesey e compagnia bella. Non ha fatto i conti con il tenero Jim, che sembra avere la capacità di trovarsi nel posto sbagliato al momento giusto, e intesse così un doppio gioco che risparmierà le vite a molti di loro: in particolare ai più scaltri, a quelli che si dimostreranno non solo ingegnosi, ma anche in un certo modo loquaci. Per tener testa al temibile Silver, bisogna essere preparati; e Jim è un bambino prodigio in questo, con la giusta dose di incoscienza e sfacciataggine. 
L'isola del tesoro è l'avventura vera, quella che sfugge agli stereotipi e alle semplificazioni, quella che ribalta i ruoli e fa sconfinare lo sbagliato nel giusto; ed è anche quell'avventura genuina, che si nutre dello stesso pane delle masse di fanciulli di tutto il mondo, e fa tirare loro un respiro di sollievo: perché insegna il vero senso di parole come bontà e giustizia, che non è mai privo di cattiveria e, forse per questo, di fascino.

domenica 24 luglio 2011

Luoghi (s)consacrati al passato.





Genius Loci, di Hella Haasse
Titolo originale: Twee verhalen
Traduzione dal'olandese di Laura Pignatti
Editore: Iperborea
pp. 64, € 9,50


"La mia vita è -da sempre- dominata da quello che non so, che resta fuori dalla mia visuale, o dalla mia portata, come un perenne assillo". Così confessa la "Grande Dame" della letteratura olandese, Hella Haasse, in uno dei suoi libri più autobiografici, "Tiro ai cigni" (Iperborea, 2004). Ora ha 93 anni, e quel non-detto e non-saputo che solca la sua esistenza, non se n'è andato: resta insaziato il desiderio di compiutezza di questa grande scrittrice d'altri tempi. "Genius loci" è un piccolo scrigno che racchiude due soli racconti: "Genius loci", appunto, e "La casa in fondo al giardino". Il mistero, sotto forma di inquietudine, è il filo rosso che unisce queste due racconti intimisti, che, dopo averli letti, lasciano addosso quella sottile angoscia simile ad un dejà-vuE' "già vissuto" quello struggimento romantico e adolescenziale che permea i giardini consacrati agli spiriti di esistenze passate; i sentimenti delle due donne protagoniste colano tra le righe come linfa, senza risparmiarci da un senso di disagio.

C'è qualcosa di profondamente sbagliato nell'esistenza, è questo che viene da pensare: di sbagliato e irrevocabile, come un verdetto divino. O come una stregoneria: a dircelo nel loro linguaggio fatto di veli e presenze sono le piante, creature misteriose, mute ma udenti, che trattengono le trame sporche del passato così come ospitano le ragnatele tra i loro rami. 
Non ci sono risposte, solo intuizioni: è questo che ci dice la raffinata narratrice dal passato esotico e quasi fiabesco, in questo suo delicato esercizio di stile.

mercoledì 13 luglio 2011

Ombre di confine vol I - Il meänkieli.



L'uomo che morì come un salmone, di Mikael Niemi
Titolo originale: Mannen som dog sm en lax (2006)
Traduzione di  Laura Cangemi
Editore: Iperborea
pp. 336, € 16,50

Il loukku è una rudimentale trappola per topi o piccoli animali, una sorta di scatola di legno costruita secondo delicati equilibri, all'interno della quale un bastoncino con all'estremità un po' di cibo, se mosso dalla bocca vogliosa di cibo dell'animale, fa crollare la parete superiore in modo da schiacciare la vittima. 
Nel Tornedal, remota regione nel nord della Svezia, pericolosamente confinante con la Finlandia, il loukku attende con le sue fauci spalancate la preda. Può attenderla per anni e anni, senza stancarsi. Solo che chi la trova, molto spesso, non è un topo. Si rischia di rimanere mutilati dalla troppa curiosità o dall'inesperienza; sono fatalità, errori, distrazioni. 
In questa terra di boschi e acque, gli abitanti dall'aria un po' intontita rispetto alla scattante Stoccolma, vivono portandosi dentro le cicatrici di ben altra mutilazione; uno strappo mal rimarginato, che ancora fa spurgare i resti di un passato represso: ai tornedaliani volevano strappare la lingua. Qui si parla il meänkieli, una lingua minore, tonda, gutturale, una spugna che ha assorbito le tracce della materna Finlandia. E' bastata la penna di un sovrano, un gesto deciso del polso, per mutilare una nazione; senza uccidere, per carità. Il taglio ha generato lo stesso effetto che avrebbe avuto su un lombrico: due parti, due storie, due vite indipendenti. Ed ecco da un lato la Finlandia e dall'altro il Tornedal, che è Svezia, ma mai fino in fondo. Gli svedesi non accettano questa lingua rozza, e cercano di porre rimedio soffocandola. I bambini, a scuola, vengono maltrattati, costretti ad imparare ed usare solo lo svedese, un intero popolo viene sottomesso ai voleri irrazionali di un'autorità lontana, che dal suo scranno, ritiene opportuno sottolineare che  un cervello con due lingue non può che essere confuso, deviato, quasi sacrilego: ah, la purezza e la rettitudine della mutilazione! Una sola lingua, un solo pensiero. Via tutto quel lessico inutile, quelle sfumature e quella doppiezza semantica. E così, i piccoli funzionari del regno, giorno dopo giorno, svolgono zelanti il loro compito (la storia, si sa, ha bisogno di tanti squallidi individui repressi per seguire il suo triste corso). Ma le mutilazioni, i tagli, hanno un difetto: si rimarginano lasciando un segno ben evidente, una cicatrice che, per quanto ci si sforzi, non si riesce a fare a meno di toccarla con le dita, di ripassare la sua forma, e ci sembra di non conoscerla mai abbastanza bene. 
Pajala è ora un paesino tranquillo che si trova proprio nel Tornedal, dove ormai il meänkieli ha ottenuto una legittimazione, nonostante parecchi abitanti abbiano 'svedesizzato' i propri cognomi. Quindi, non dovrebbero esserci problemi: e allora perchè il vecchio Martin Udde, prima maestro e poi doganiere, ormai alla fine della  vita, viene trovato nel suo letto ucciso con una fiocina, una di quelle che si usano per cacciare salmoni? E cosa sta bruciando a fuoco lento su una padella nella sua cucina? 
Per scoprirlo, arriva dalla capitale una poliziotta cittadina del mondo, figlia della globalizzazione pop e della cultura dell'immagine. Una Barbie emancipata che prende in mano la situazione con disgusto, ma che avrà molto di imparare, soprattutto su se stessa e sulle proprie origini. Imparerà che la morte di un uomo si porta dietro sempre il pezzo di storia, e che forse il destino di Martin Udde stava già scritto da qualche parte, in qualche stanza buia che nessuno ha mai avuto il coraggio di aprire. Certe cose, però, più che scritte stanno nell'aria, si tramandano di bocca in bocca, sono dette e sentite, ma non incise; proprio come le istruzioni del loukku, la trappola per topi, la fine del vecchio doganiere si è tramandata in un filo sottile di dna, ha strisciato di cellula in cellula, fino ad arrivare all'atto finale, al compimento del gesto estremo: lo schiocco di mandibole, la chiusura delle fauci, lo strappo della carne.

mercoledì 6 luglio 2011

Le menti di Billy Milligan. Ovvero, una stanza piena di gente.




Una stanza piena di gente, di Daniel Keyes 
Titolo originale: The Minds of Billy Milligan (1982)
Traduzione di Natalia Stabilini e Isabella C. Blum
Editore: Editrice Nord (2009)
pp. 544, € 19,00


Si sta stretti in una stanza con molte, troppe, persone: soprattutto se alcune di queste non sono esattamente ciò che desideravi trovarti di fianco, gomito a gomito. Soprattutto se, oltre che all'età, anche le nazionalità, le lingue, la religione e gli accenti sono differenti. Quella sala riunioni a Lebanon,  dove, in una mattina fredda e nebbiosa di inizio marzo nel 1978, si ritrovano quattro psichiatri, un assistente sociale, tre avvocati - e, presumibilmente, almeno un poliziotto- piena di gente lo era per davvero. In realtà a riempire la stanza, ben più che questa folla di professionisti, sarebbe bastato quel ragazzo di ventitre anni dall'aria impaurita, con il viso nascosto da folti baffi e da una zazzera biondo grano. 
Quell'aria inquieta e quel far andare su e giù le ginocchia non dipendevano dal fatto che Billy Milligan fosse l'imputato in questione; perchè Danny, in quel momento, non capiva proprio cosa stesse succedendo e cosa volesse da lui quella gente. Così abbandonò il posto e fece arrivare Ragen, che parla con accento slavo, e per questo lascia sempre un po' sconvolti i suoi interlocutori. Sì, si stava decisamente stretti in quella stanza, e il dottor Harding Jr., direttore di una prestigiosa clinica, nonché autorità in campo psichiatrico, stava anche cominciando a sudare. Sembrava ci stesse mezzo mondo lì, a guardarlo con quegli occhi azzurri che ogni tanto era come se perdessero consistenza; come se chi ci stesse dietro si fosse assentato un attimo per lasciare la scena a qualcun'altro.
Billy Milligan non lo sapeva ancora che quell'incontro, in quella stanzetta adibita a sala riunioni,con lavagne e matite, sarebbe stato il primo passo verso la sua assoluzione: sarebbe diventato famoso, il piccolo Billy; voglio dire, ancora più famoso di quanto non lo fosse già, con la sua quindicina di giorni di celebrità per aver rapinato e stuprato tre giovani donne. Sarebbe diventato, infatti, il primo uomo dichiarato non colpevole per infermità mentale; ma  dormiva.
Certo, perchè quando si è in troppi in uno spazio ristretto, gestire la situazione diventa complicato e spesso l'unico modo per sopravvivere a una convivenza forzata è quello di isolarsi. Così Billy dorme, e lo fa per anni, lasciando che siano gli altri ad affacciarsi sulla porta e a interloquire con il mondo esterno. A turno, ognuno fa capolino e si arrangia, lasciando Billy nel suo stato di torpore. Quella mattina di inizio marzo, questa strana giuria di esperti dovrà capire, prima di decidere; dovrà constatare che in quella stanza, di persone, ce ne sono almeno una trentina (anche se nessuno arriverà a pensarlo o a dimostrarlo). Sarà una mattina decisiva anche per Billy Milligan e per la sua famigilia di coinquilini, che solo da quel momento vengono legittimamente riconosciuti come abitanti del posto.
E a quel punto, cosa si deve fare di Billy e della sua “famiglia”? Dopo aver girato le carceri e gli ospedali di mezzo mondo, finalmente Milligan trova qualcuno disposto a crederci, a questa storia delle personalità multiple. Anche se sono talmente tante che a mettersi a contarle non ci si crede. Non si può credere neanche alle sue (pardon, alle loro) abilità: c'è chi suona la batteria e chi il sax, chi conosce lo slavo chi l'arabo, c'è chi dipinge ritratti al limite del vero e chi paesaggi malinconici. E poi come fa uno che il giorno prima si rannicchiava in modo scomposto in un angolo per la paura di essere picchiato, a guardarti con quegli occhi colmi di rabbia, e a sradicare un gabinetto dal pavimento?
Non sarà facile, per gli uomini e le donne che si sono presi a cuore la questione, risalire alla summa, all'Uno, al Maestro: colui che è l'addizione delle sue parti. E, soprattutto, ancora più difficile sarà far capire al mondo chi è quest'uomo e cos'è diventato. Sarà difficile far accettare all'America degli anni Settanta, il fatto che uno stupratore non sia un criminale, ma una poetessa lesbica in cerca di calore umano. Sarà impossibile convincere le autorità a lasciare che per una volta il povero Milligan si prenda il suo spazio vitale, riattaccando giorno dopo giorno i cocci della sua vita. Daniel Keyes è lo scrittore barbuto che si fa in parte carico di questo fardello: registrare, testimoniare, assemblare, raccontare. Dalla A alla Z, dalla nascita alla morte; no, non vi ho svelato la fine. Sarebbe banale: Billy Milligan tecnicamente è ancora vivo; sta a voi decidere, dopo aver letto la sua storia impressionante, dove sta la A e dove la Z, in un alfabeto che è stato rimescolato come le lettere di un paroliere.

mercoledì 22 giugno 2011

Dopo la X, viene la A: si ricomincia da capo, con la benedizione di un genio.




Generazione A, Douglas Coupland
Titolo originale: Generation A (2009)
Traduttore: Marco Pensante
Editore: ISBN
pp. 400, € 15,00

Un futuro senza le api, con fiori e frutti nati da impollinazione manuale, fatto di tsunami, esibizionismo estremo, call center che- dal capo opposto del mondo- nutrono l'immaginazione di giovani cloni, gente che perde la fede in qualsiasi cosa nello stesso modo fervente in cui prima credeva, vite virtuali e strane sindromi dettate dalla solitudine. Cinque persone diverse (ma tutte punte da un'ape) che si ritrovano isolate in una casa a raccontarsi storie; un sadico esperimento dettato dal delirio di onnipotenza di un Boccaccio post moderno, uno scienziato che più che un personaggio alla Brazil assomiglia a una specie di filosofo blasè, annoiato dalla sua stessa razza. Tutto va a rotoli, e i fantastici cinque (una sportiva, un adolescente a metà tra l'emo e il nerd, un agricoltore esibizionista, una pia donna affetta da sindrome di Tourette, un centralinista dello Sri Lanka che per comodità e cinismo chiameremo "Apu")  non hanno altra scelta, se non seguire le indicazioni di questo strano e inquietante tutore; non possono far altro che esplodere in decine di storie incredibili tessendole inconsapevolmente intorno a un unico filo rosso. Disgregazione e poi fusione; processi che ci ricordano le profezie di certi filosofi del Novecento, di certi profeti della perdita dell'identità, dell'aura e delle grandi narrazioni. Non dimentichiamoci di cosa si sta parlando: della Generazione A, quella che ci raccoglie tutti sotto la benedizione di Kurt Vonnegut, quella che -ormai- ha già dato inizio a “una serie di trionfi e fallimenti spettacolari”.

martedì 21 giugno 2011

Il giallo è aristocratico


La morte segue i magi, Hans Tuzzi
Editore: Bollati Boringhieri
pp. 309 , 13,76 €


Ci vuole qualche pagina- forse una trentina, forse di più- per entrare in sintonia con la scrittura di Hans Tuzzi. Quando ci riesci, quando riesci a decifrare ed afferrare i suoi aforismi nascosti in ogni paragrafo, quando il ritratto verista prende vita, non vorresti più interrompere la lettura. Quasi quasi ti piacciono anche le strade umide di Milano sotto la pioggerellina autunnale, i bar che si portano dentro come una condanna l'odore di zucchero, burro e tabacco (allora, negli anni Ottanta, si poteva fumare nei locali pubblici); riesce persino ad affascinarti certa aristocrazia nascosta e sprezzante, indagata impietosamente ma sempre con eleganza dall'occhio scettico e malinconico del commissario Melis. Che poi, diciamocelo, se il commissario non è un poco malinconico, non ci piace veramente. "La morte segue i magi", episodio sospeso tra le Br e la "Milano da bere", ha tutti gli elementi per essere un giallo perfetto, più la raffinatezza e lo stile di Hans Tuzzi; c'è la città grigia da scoprire dietro ogni angolo, c'è il commissario che fuma la pipa, c'è la sua fedele e romantica compagna, c'è il suo cane, c'è tutta una squadra di macchiette del distretto di polizia. E poi ci sono i milanesi, per lo più facoltosi, appartenenti a un mondo sotto vetro: i restauratori, i ricchi collezionisti, i sapienti e i non meno astuti falsari. Vi sorprenderete ad appassionarvi al sottobosco di mestieri che circondano l'arte, mentre magari fuori piove e ci sembra un po' di essere in quella Milano novembrina dove le foglie dei platani brillano di giallo. Ah, dimenticavo: ci sono anche i delitti.

sabato 18 giugno 2011

Alfredo Antonaros vol. I

Alfredo Antonaros è una voce nascosta, uno dei tanti personaggi sottovalutati del panorama letterario italiano. E' il ghost writer della malinconia, dove Tabucchi ne è il ritrattista. Un decina d'anni e due editing completamente differenti separano Per Sarah da La piattaforma : uscito ne "I Narratori" Feltrinelli il primo, nella sezione Europós della raffinata collana di Jaca Book "Mondi Letterari", il secondo. Un romanzo femminile e uno maschile, un flusso di coscienza senza possibilità di naufragio a confronto con l'immobilità morale e sentimentale dei naufraghi della piattaforma. Il deserto del Medio Oriente e quello dell'oceano, una coppia simbiotica di amiche e un padre e un figlio esacerbati dalla lontananza. Un chiasmo letterario rimasto occultato dagli strilli dei venditori.

Per Sarah, Alfredo Antonaros
Editore: Feltrinelli (1989)
pp. 109

Lo sciorinare ininterrotto dei ricordi dell'anonima amica di Sarah è leggero e di ampio respiro, talmente ampio e leggero che ci si lascia cullare sin dall'inizio, sprofondando piano piano. La voce che fa rivivere Sarah dipinge fotogrammi di una luce intensa, quella del cielo infinito di Beirut e delle caotiche strade di Marsiglia. La mente gioca con i tempi verbali, i flash back diventano flash forward: due ragazze mediorientali ampie, che contengono moltitudini, che si gonfiano come lenzuola al vento, riempiendosi di coraggio. L'anticonformismo e l'intelligenza non sono ostentate, ma raccontate in parole povere, così come gli amici, l'alcool, il passaggio da oriente a occidente, da un vuoto all'altro, le sigarette, glu uomini, i concerti (una pianista, l'altra violinista). E poi il senso di inadeguatezza che emerge dal torrente di emozioni, il tormento della tragicità quotidiana, per cui nulla è facile, niente può essere vissuto con superficialità. E il nastro dei ricordi si contorce, in un mulinello ciclico, precipita, si fa complesso. L'irrimediabilità dei fatti si ispessisce, mano a mano che la storia di questa amicizia romantica si avvia verso la fine. Un lucidissimo gioco con i ricordi, un disperato tentativo di non lasciare che la memoria si sgretoli.

La Piattaforma, di Alfredo Antonaros
Editore: Jaca Book (1997)
pp. 122


Che senso può avere una piattaforma, una finzione estrema sganciata sul mare, una terra che nessuno vuole vedere? Quali circostanze portano a trovare lavoro in un’isola di tubi, che esala veleni e rumori? Eppure si vive di questo, sulla piattaforma di smaltimento rifiuti in mezzo al mare; si vive consapevoli della presenza di certi fantasmi, persi sulla superficie dell’acqua, di questi sprechi di vite galleggianti. Ci convivono gli indiani, i creoli, i neri, i cinesi. Canottiere sporche, stivali che affondano nel fango e nella muffa, che divora ogni cosa. Saliranno i polpi e i granchi, a mangiare le corde del pianoforte,a togliere musica a questa croce segnata a matita sulle cartine geografiche, che pure la ignorano.
In questo luogo inesistente perché dimenticato, approda Wilkins, un comico, uno che fa ridere la gente, una maschera dal sorriso condiscendente e imbarazzato da se stesso, che ti perdona all'istante se ridi di lui, e lo fa con un'alzata di spalle. Arriva qui per un'improbabile riconciliazione con il figlio, roso dall'alcool e dal rancore, che della piattaforma ha fatto la sua torre d'avorio. 
Un vecchio padre che, come gli elefanti, sta cercando un posto per sé, alla fine della vita, che vuole togliersi dalla scena per ritornare sui suoi passi  con l'umiltà del figliol prodigo.

Speed Blues. Latte, solfato e Alby Starvation di Martin Millar


"Latte, solfato e Alby Starvation" di Martin Millar
Titolo originale: Milk, Sulphate and Alby Starvation (1987)
Traduzione di Franco Garnero
Editore: Baldini Castoldi Dalai editore (2004)
pp. 177 - € 12,40
Nel 1987, a Brixton, nasce un anti-eroe letterario: un pusher paranoico, cultore del raggae e dei fumetti Marvel, con un criceto come unico compagno. Il fatto che si stia parlando di un giovane adulto inglese nel pieno dell’era delle droghe sintetiche e dello squatting fa già il 20% del lavoro per rendere Alby Starvation un “morto di fame” accattivante. Un personaggio di culto a pieno titolo. Il libro si apre con una considerazione personale, che vale la pena citare: “Cristo santo che cazzo di rottame sono diventato”. Personalmente la inserisco tra i dieci migliori incipit della storia della letteratura. 
Alby è ricercato da una killer professionista, assoldata dal Monopolio del Latte per ucciderlo, dopo che, scoprendo di essere intollerante al latte come la maggior parte della popolazione inglese, Alby diventa la star per un giorno dei tabloid e mette in pericolo l’industria casearia della regina - che d’altro canto si serve di metodi non proprio ortodossi per sfamare i suoi sudditi. Questo è l’occhio del ciclone, che coinvolge parecchi altri personaggi interessanti: innanzitutto il Cinese, “alquanto misterioso, e non solo perchè è cinese”, alla ricerca di Alby Starvation come June, la killer professionista amante delle piante e della filosofia, che “fa l’assassino perchè molto discreta”. Poi Fran e Julie, che tra un concerto punk e l’altro trovano il tempo di essere amiche di Alby (ma forse è solo una questione di solfato). Fran e Julie contribuiscono alla condizione disperata del direttore del Big Value, in quanto esperte taccheggiatrici. Del resto, non si può mangiare granchè con il sussidio di disoccupazione. Ci sono poi due avversari, conosciuti e temuti in tutte le sale giochi di Brixton: uno è l’autista fedele del Cinese, Cheng; l’altro è il suo “rivale mortale”, Wu. Si sfidano ogni sera e rappresentano due approcci diversi al gioco: occidentale e orientale, gioco sporco e allenamento contro meditazione e pittura zen. E il professor Wing, alla ricerca di un’antica corona, che spera di trovare fingendosi un operaio e scavando nelle strade londinesi. E altri, minori ma autentici personaggi, tra i quali stavo dimenticando, in modo imperdonabile, Happy, il criceto di Alby. La colonna sonora è gracchiante, ha il suono sporco delle piastre di registrazione homemade; oltre ai pezzi dei The Fall e a qualche suono che ci si può immaginare provenga dalla chitarra scordata di Alby e dalla sua maldestra batteria elettronica, si respira aria di Ottanta, di emarginazione, di carta da parati strappata. Uno speed di elementi culto che vi farà sorridere.